In un’epoca in cui i confini tra bene e male si fanno sempre più labili, persino al cinema, non è raro imbattersi in un antagonista la cui causa – se non i mezzi – sembra avere più senso del previsto. Eppure c’è un’eccezione, un caso limite, apparentemente senza redenzione: lo Xenomorfo. Alto, nero come l’ebano spaziale, silenzioso, perfettamente letale. La personificazione del terrore alieno. Il volto (o la mandibola) della saga di Alien.
Eppure... e se lo Xenomorfo non fosse il cattivo?
Sì, parliamo proprio di lui. Quella creatura affascinante nella sua terrificante eleganza biomeccanica, concepita dalla mente di H.R. Giger e resa immortale da Ridley Scott nel capolavoro del 1979. Lo Xenomorfo non parla, non fa monologhi sul destino dell’universo, non stringe accordi con potenze occulte. Lui vive. Anzi: sopravvive. In un universo ostile, violento, in cui l’unica legge universale è la selezione naturale portata alle estreme conseguenze.
Quando arriva l’Uomo, lo Xenomorfo non invade, non conquista, non stermina per capriccio. Reagisce. Difende. Si espande come ogni specie biologicamente spinta alla sopravvivenza. Il facehugger non è crudele: è solo un mezzo, brutale quanto un virus o un parassita terrestre, ma non più ingiusto. La Regina madre non è un despota: è una genitrice. E la larva che si divincola fuori dal torace? Sì, fa schifo. Ma è il ciclo della vita... aliena.
Lo Xenomorfo non fa distinzione morale. Non odia, non giudica. Non ha ambizione di potere. Non cospira. È puro istinto, pura necessità biologica. Ed è proprio in questa “innocenza” primitiva che risiede la sua tragica condanna: essere frainteso.
Chi è il vero cattivo, dunque? Chi è che manda navi con equipaggi inconsapevoli a intercettare segnali di soccorso falsi? Chi è che cerca di catturare lo Xenomorfo vivo, ignorando la sicurezza dell’equipaggio? Chi è che considera la creatura “una risorsa da sfruttare” anziché una forma di vita autonoma da rispettare? Non serve cercare troppo lontano: il mostro veste il completo grigio dell’azienda. La Weyland-Yutani, onnipresente conglomerato interstellare, è l’emblema della cupidigia umana, cieca davanti all’etica e affamata di profitto.
La creatura non è nata per uccidere gli umani. Gli umani si sono messi sulla sua strada. Peggio: l’hanno cercata.
“Prosperare per sopravvivere”
Questa frase, che potrebbe suonare come un semplice aforisma darwiniano, è in realtà una chiave di lettura etico-filosofica. Ogni specie cerca di prosperare. L’uomo colonizza, sfrutta, conquista. L’alieno si adatta, si insedia, risponde all’ambiente. Ma se la nostra espansione è chiamata “progresso” e la sua è definita “invasione”, forse abbiamo un doppio standard morale. Il nostro sviluppo ha prodotto guerre, devastazioni, genocidi; lo Xenomorfo ha solo un ciclo vitale. È davvero più mostruoso?
La creatura è un sopravvissuto, una vittima per certi versi, manipolata, sfruttata e temuta non per ciò che fa, ma per ciò che rappresenta: la natura che non possiamo controllare. La biologia che sfugge ai laboratori. L’intelligenza non misurabile in parole, ma in istinto, adattabilità, efficienza. Un organismo perfetto, come dirà Ash, l’androide, con una sorta di rispetto reverenziale: «Privo di coscienza, di rimorsi o di illusioni di moralità.»
C’è poi un aspetto ironico: l’umanità ha sempre cercato nello Xenomorfo un’arma perfetta. Ma è proprio la sua perfezione a condannare chi tenta di domarla. Ogni film della saga lo dimostra: più l’uomo cerca di controllarlo, più viene distrutto. Come se la creatura stessa incarnasse una giustizia biologica. Una vendetta silenziosa contro l’arroganza antropocentrica.
Lo Xenomorfo, allora, non è un “cattivo” nel senso narrativo. È un monito. È ciò che accade quando l’uomo va troppo oltre. Quando il progresso si disumanizza. Quando la scienza si dimentica dell’etica.
“Questo signore alto, moro e affascinante…” — potremmo descrivere così un attore hollywoodiano. Ma anche lo Xenomorfo, con quel suo corpo slanciato, lucido, muscolare. Una forma aliena, certo, ma ipnoticamente bella nella sua struttura letale. L’alieno, da sempre, rappresenta l’Altro, ciò che non siamo e temiamo. Ma anche ciò che, in fondo, vorremmo essere: liberi da regole, da compromessi, da ipocrisie.
Lo Xenomorfo è il simbolo dell’inevitabile. Della natura che si riprende la scena. Della vita che, anche nella forma più distante da noi, reclama lo stesso diritto: esistere. Non per distruggere, ma per essere.
Forse è tempo di smettere di dividere il mondo in buoni e cattivi. Forse lo Xenomorfo è solo lo specchio nero e lucido in cui riflettiamo le nostre paure più intime: il fallimento della ragione, l’inefficacia della tecnologia, l’inutilità del controllo. E allora sì, possiamo vedere in quella creatura terrificante... un fratello lontano. Un sopravvissuto come noi, in lotta contro un universo che non perdona la debolezza.
Il cinema ce lo ha mostrato come un incubo. Ma a ben guardare, è anche una lezione. Una creatura che, nel suo silenzio assordante, ci urla: “Non sono io il mostro. Lo divento solo quando mi costringi a esserlo.”
Prosperare per sopravvivere. Pace.
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