Dietro le tavole colorate e i dialoghi taglienti che caratterizzano l’universo Marvel, si cela spesso una tensione profonda, quasi archetipica. Uno degli scontri più rappresentativi di questa dimensione narrativa è quello tra due figure che, al primo sguardo, potrebbero sembrare solo carnefici fuori controllo: Carnage e Deadpool. Ma è davvero tutto qui? O sotto la superficie di questa carneficina a colori si cela un confronto molto più serio e simbolico?
Wade Wilson, alias Deadpool, non è solo un mercenario fuori di testa: è l'incarnazione della resilienza, dell’irriverenza come strumento di sopravvivenza. La sua filosofia è riassunta in un motto urlato più volte tra le esplosioni e le mutilazioni: “Massimo sforzo, mamma!”. Una frase che, al di là della provocazione, rivela un approccio esistenziale radicale: affrontare ogni ostacolo con una forza cieca, viscerale, totale.
Fonti interne al team creativo Marvel confermano che il personaggio è stato pensato per superare il concetto stesso di eroe. Non combatte per la giustizia, ma per rimanere in piedi. E se soffre, se sanguina, se sente dolore, non lo nasconde. Anzi, lo celebra. Per Deadpool, il dolore è prova di esistenza, e in quanto tale, carburante per la vendetta. “Vaffanculo il dolore,” sembra dirci ogni sua azione, “perché se lo senti, sei vivo. E se sei vivo, combatti.”
Carnage, al contrario, è la rappresentazione di un’altra dimensione dell’orrore. Non è l’eroe ferito che scherza per non piangere. È il male puro, una creatura nata dalla fusione tra un serial killer (Cletus Kasady) e un simbionte alieno privo di qualsiasi codice morale. La sua violenza non ha una causa o una giustificazione. È entropia incarnata, caos senza scopo. Dove Deadpool reagisce, Carnage distrugge per principio.
Il loro scontro, quindi, non è solo spettacolare: è l’incontro tra due modalità opposte di sopravvivere al trauma. Deadpool lo ridicolizza, lo metabolizza, lo trasforma in un’arma. Carnage lo amplifica, lo impone al mondo intero.
L’ultima miniserie che li ha visti protagonisti, oltre a offrire tavole visivamente mozzafiato, mette in scena una riflessione meta-narrativa sottile ma evidente. Deadpool è cosciente di essere un personaggio dei fumetti. Si rivolge direttamente al lettore, rompe la quarta parete, rivendica il proprio diritto a esistere anche come commento ironico del medium stesso. Carnage, invece, esiste solo nel momento della distruzione. È l’antitesi di qualsiasi forma di consapevolezza. Dove Deadpool gioca, Carnage devasta.
Il pubblico ha risposto con entusiasmo: visualizzazioni record per i contenuti video correlati, community attivissime che commentano ogni nuova uscita, cosplayer che affollano le convention con interpretazioni sempre più estreme dei due personaggi.
In un’epoca in cui la cultura pop è diventata una lente per leggere la realtà, il duello tra Carnage e Deadpool diventa un laboratorio per esplorare i confini della nostra empatia, della nostra rabbia repressa, persino della nostra necessità di ridere davanti all’orrore.
Perché in fondo, ciò che Deadpool ci insegna è che finché respiriamo, possiamo combattere, anche quando non c’è nulla da salvare se non noi stessi. E ciò che Carnage ci ricorda, con brutale chiarezza, è che la follia non ha bisogno di una ragione, e che ignorarla non ci proteggerà.
Nel mezzo di questa guerra disegnata, tra esplosioni di sangue e battute grottesche, il lettore è chiamato a scegliere: affrontare il dolore con un ghigno, oppure lasciarsi divorare dal caos.
E il fumetto, oggi più che mai, non è solo evasione. È specchio deformato di ciò che siamo. O peggio, di ciò che potremmo diventare.
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