« Le forme artistiche generano e rigenerano quella soggettività stessa che fingono solo di evidenziare »
(Clifford Geertz, Note sul
combattimento di galli a Bali.)
« Tutto quello che la gente desidera
ed esige troverà espressione sui giornali; così pure ciò che
deprime e turba la gente non resterà inespresso »
(Joseph
Görres, Rheinischer Merkur.)
Si è scelto, in questo lavoro, di
indagare il mondo del fumetto, in particolare di quello statunitense
e dei supereroi dagli anni '60 ai giorni nostri, non avendo la
pretesa di occuparsi di un'eventuale valenza estetica pura del
fumetto stesso, ma piuttosto, del senso estetico-sociologico dei
contenuti di queste opere. Si da, qui, abbastanza per scontata, e si
rimanda ad altre sedi per eventuali discussioni su questo argomento,
la valenza sociologica del fumetto di supereroi statunitense.
Si citano a favore di questa tesi solo
due fatti: il largo consumo del prodotto fumetto da parte del
pubblico giovanile (e non solo) statunitense, che sfocia, poi, in
particolare nel nostro caso, in una vasta conoscenza, da parte della
massa statunitense, a proposito dei mondi fantastici ideati dalle due
maggiori case editrici che si sono occupate del fumetto che qui
trattiamo (Marvel Comics e DC Comics); il fatto che, nel 1954, sia
stato pubblicato un famoso saggio - che avrebbe poi portato all'unico
momento di crollo del mercato supereroico - da parte dello psichiatra
Fredric Wertham, intitolato Seduction of the innocent, che «aveva
accusato i comic books di sedurre ragazzi innocenti e di portarli
sulla cattiva strada» (Meo, Roma, 2003, p. 5).
A conferma, citiamo alcune
testimonianze: «Che le comic strips vengano lette, almeno negli
Stati Uniti […] dagli adulti più che dai ragazzi, è fenomeno
assodato; che dei comic books vengano prodotti circa un miliardo di
copie all'anno nei soli Stati Uniti, ci è rivelato dalle statistiche
[…]. Che infine questa letteratura di massa ottenga una efficacia
di persuasione paragonabile solo a quella delle grandi raffigurazioni
mitologiche condivise da tutta una collettività, ci viene rivelato
da alcuni episodi altamente significativi. […] Si pensa […] a
casi in cui tutta l'opinione pubblica ha partecipato istericamente a
situazioni immaginarie create dall'autore di comics come si partecipa
a fatti che toccano da vicino la collettività» (Eco, Milano, 1964,
p. 226-7).
«Ci sono innumerevoli […] esempi:
quando Dagwood e Blondie (famosi protagonisti dei comics, N. d. R.)
non sapevano decidersi sul nome del loro secondo bambino, più di
quattrocentomila lettori si offersero di risolvere il loro dilemma;
[…] Milton Caniff ebbe l'audacia senza precedenti di uccidere un
personaggio dei fumetti (Raven Sherman) e fu assalito dai lettori
infuriati che manifestavano la loro violenta indignazione per la sua
sfrontatezza» (Manning White e Abel, 1966, Milano, p. 11).
«Quando fu rivelato al pubblico degli
anni '30 che Joe Palooka (famoso personaggio dei comics, N. d. R.) si
manteneva in forma mangiando formaggio, le vendite di questo
latticino aumentarono in modo così impressionante che l'Istituto
Caseario Nazionale incoronò in segno di riconoscenza il creatore di
Palooka, Ham Fisher, "Re del Formaggio per il 1937"» (ivi,
p. 28).
Assunta questa tesi, quindi, la prima
scelta metodologica è stata quella di occuparsi solo di quelle che
oggi sono definite case madri, ovvero Marvel e DC, le due case
editrici più grandi (e molto lontane dalle altre in termini di
vendite) se parliamo di fumetto di supereroi. Abbiamo scelto proprio
queste, e non altre (le cosiddette indipendenti), poiché le
riteniamo più rappresentative dal punto di vista sociologico.
I motivi sono i seguenti: 1) le case
madri raggiungono un pubblico più vasto; 2) interessano, per l'età,
un target più ampio; 3) accettano il Comics Code Authority, ovvero
l'organo della censura, e parlano, dunque, solo di ciò di cui si può
parlare (ricordiamo - solo per far capire quale fosse il grado di
censura - e, di conseguenza, il livello di intelligenza degli autori
nel saper parlare di temi scottanti anche in questo contesto - che,
negli anni '60, era proibito disegnare i capezzoli nei petti maschili
nudi).
Sempre in quest'ottica, la maggior
parte delle parole sarà spesa per parlare della Marvel, in quanto
inventrice ufficiale del mondo dei "supereroi con superproblemi"
e, in particolare, di quello del supereroe diverso ed emarginato. È
importante chiarire, dal punto di vista del metodo bibliografico, che
la letteratura saggistica sul fumetto di questo tipo, almeno in
Italia, è sufficientemente scarsa e frammentaria. Spesso, preziose
informazioni filologiche pervengono all'appassionato tramite le
risposte dei redattori nella pagina della posta degli stessi fumetti.
Molto di questo lavoro è stato compiuto basandosi direttamente sui
fumetti letti in quindici anni di passione specifica e sulle
informazioni di cui sopra.
Coerentemente, la bibliografia di
questa tesi sarà composta di testi filosofici, estetici, sociologici
e che trattano del fumetto, ma la maggior parte delle fonti proverrà
da specifici dialoghi o monologhi del fumetto e, soprattutto, sarà
l'insieme del maxi-testo composto dai vari mondi inventato dalle
diverse case editrici. Si tratterà, quindi, di un testo organico, di
cui probabilmente nessuno ha potuto leggere tutto, perché si tratta
di tantissime serie nel corso di tantissimi anni. Ogni lettore,
quindi, fruisce di una parte di questo organum, cogliendone,
bergsonianamente, l'intera essenza (del mondo fittizio nel quale sta
entrando e dell'eroe specifico di cui sta leggendo le storie).
Dal punto di vista metodologico,
dunque, si seguirà la scia dell'antropologo Geertz, che, per primo,
in maniera decisa e radicale, ha proposto «l'estensione dell'idea di
testo al di là del materiale scritto, e perfino al di là di quello
verbale» (Geertz, Bologna, 1998, p. 431). Egli dichiara, infatti,
che quest'idea «non è poi una grande novità», ma denuncia il
fatto che non sia ancora «teoricamente sviluppata» (ibidem) e che
«il corollario più profondo […] secondo il quale le forme
culturali possono essere trattati come testi, come opere
dell'immaginazione costruite con materiali sociali, deve ancora
essere sfruttato sistematicamente» (ibidem). Si cercherà, infatti,
di seguire i percorsi indicati dal sociologo Lowenthal che si augura
che un giorno «l'interpretazione del ruolo sociale dei prodotti
della letteratura artistica e non artistica potrà essere ricondotta
ad una unica formulazione teorica» (Lowenthal, Napoli, 1977, p. 29),
di Manning White e Abel [1966] che affermano che il vero autore del
fumetto sia il pubblico e che, invece di un messaggio, i comics
contengano l'immagine riflessa dei loro lettori, diventando, così il
teatro popolare delle masse americane, ma anche di Eco (1964) che si
chiede quanto un fumetto possa essere un quotidiano e corrosivo
pamphlet e quanto, invece, non svuoti le situazioni e le sdrammatizzi
in maniera qualunquistica.
Riportiamo, al riguardo, uno stralcio
di Apocalittici e integrati che ben riflette la peculiarità
dell'espressione artistica basata sul fumetto. A sua volta Eco
riporta e commenta un'intervista ad Al Capp, creatore di Li'l Abner,
uno dei fumetti più famosi d'America. «"Il fumetto è il più
libero dei mass media", dice. Infatti l'autore non è sottoposto
alla tirannia dello sponsor televisivo, i condizionamenti tra cui si
muove sono molteplici, ma nessuno è abbastanza tirannico. Così
l'autore è totalmente libero di esprimersi al proprio pubblico ogni
idea che gli passi per la testa. Certo ha alcuni limiti: anzitutto
deve fare in modo "che l'idea sia affermata in modo abbastanza
chiaro che possa essere compresa dal più gran numero di persone".
Ma questa condizione non cambierà totalmente l'idea da esprimere?»
(Eco, Milano, 1964, p. 179).
Concludiamo questa introduzione
metodologica con uno stralcio di Benjamin che sintetizza
efficacemente lo spirito che sta alla base di questo lavoro, cioè il
ritorno, col fumetto, ad un'arte dell'oggetto (come nella biblia
pauperum o nella poesia pre-islamica o nel teatro di burattini
giapponese) e non del soggetto (come nell'arte romantica o
post-romantica). L'opera non è più, quindi, un'intuizione
soggettiva che, secondo Croce, perde la sua essenza con la
«comunicazione, cioè la trascrizione tecnica del prodotto artistico
– spirituale – in qualcosa di "oggettivo" o materiale»
(Restaino, Torino, 1991, p. 204) e non è più valido l'impianto
hegeliano secondo il quale, «poiché l'Assoluto è spirito e non
materia, una raffigurazione sensibile non potrà mai pervenire al
giusto modo di realizzare l'autocoscienza, o autoconoscenza, o
libertà, dello Spirito assoluto» (ivi, p. 139). L'opera d'arte
diventa un'opera dell'oggetto. È il fruitore, cioè, a decidere, di
fatto, cosa debba essergli raccontato. È, dunque, pertinente, a
nostro avviso il commento di Benjamin, secondo il quale «la
distinzione tra autore e pubblico è in procinto di perdere il suo
carattere sostanziale […]. Il lettore è sempre pronto a diventare
autore. In quanto competente di qualcosa, poiché volente o nolente
lo è diventato nell'ambito di un processo lavorativo estremamente
specializzato – e sia pure anche soltanto in quanto competente di
una funzione irrisoria – ha accesso alla schiera degli autori»
(Benjamin, Torino, 1966, p. 36).
Nessun commento:
Posta un commento