Nell’universo Marvel, dove la linea tra l’eroismo e la tirannia si dissolve spesso tra le pieghe del potere e della volontà, pochi personaggi incarnano il fascino del cattivo con la stessa profondità e complessità di Victor Von Doom. Sovrano della Latveria, scienziato geniale, stregone di rara abilità, ma soprattutto ego titanico con una visione incrollabile della propria infallibilità. Il Dottor Destino – come si fa chiamare – non è solo un antagonista: è una figura tragica, un Prometeo moderno che ha osato troppo e non ha mai smesso di bruciare.
Ma perché Doom continua ad affascinare generazioni di lettori, al punto da essere considerato non solo uno dei migliori villain della Marvel, ma uno dei personaggi più stratificati dell’intero fumetto occidentale?
La risposta giace nella sua onnicompetenza e nel suo paradosso.
Doom è, senza dubbio, tra gli uomini più potenti della Terra. Non per caso o dono celeste, ma per volontà inflessibile. Ha vagato per il mondo alla ricerca del sapere, scalato le vette della scienza fino a superare Einstein e Richards, padroneggiato la magia fino a rivaleggiare con gli stregoni supremi, conquistato una nazione e governato con pugno di ferro, ma anche con ordine e visione. Nella sua figura si fondono razionalità e misticismo, logica e fede, acciaio e fuoco.
È il sogno lucido di un tiranno illuminato: un uomo che non si limita a desiderare il potere, ma si convince che il mondo abbia bisogno che lui lo eserciti. E quando combatte contro eroi, dèi o creature cosmiche, lo fa non solo per vincere, ma per dimostrare che ha sempre avuto ragione.
Questo è il cuore della sua tragedia: non è un semplice megalomane. È un uomo che crede, con ardore fanatico, che il mondo migliorerebbe sotto il suo dominio. E in alcune delle sue versioni più riuscite, come quella proposta nella Secret Wars del 2015, ha avuto persino modo di dimostrarlo.
In quel racconto, tra i più acclamati del decennio, il multiverso Marvel collassa. Le realtà si annichiliscono sotto il peso degli eventi cosmici orchestrati dai Beyonders, e tutto ciò che rimane è ciò che Destino decide di salvare. Rubando il potere divino con un gesto di hybris estrema, crea Battleworld, una nuova realtà composta da frammenti dei mondi perduti, governata con pugno saldo e mente lucida.
Doom diventa Dio. Letteralmente. E nel farlo, dimostra di saper mantenere ordine e stabilità laddove persino le forze cosmiche avevano fallito. Nonostante ciò, ciò che lo ferisce – e lo minaccia – non è la ribellione armata, non la fine del potere, ma la memoria di un uomo: Reed Richards.
È qui che il personaggio di Destino rivela tutta la sua fragilità umana. Nonostante diventi il creatore e dominatore di un nuovo mondo, non riesce a scrollarsi di dosso l’ossessione per colui che considera il proprio eterno rivale. Non è l’odio puro a guidarlo, ma il rifiuto dell’errore, il trauma di una caduta vissuta come ingiustizia: quell’esperimento fallito ai tempi del college, quella cicatrice – fisica e metaforica – che gli ha segnato il volto e l’anima.
Doom non perdona. E non perdona sé stesso.
Il suo rapporto con Reed Richards non è solo una rivalità tra geni. È la manifestazione del suo bisogno disperato di validazione. L’intero percorso di Destino, dai suoi studi ossessivi fino al governo della Latveria, è un tentativo patologico di dimostrare che nessuno può correggerlo, che nessuno è superiore. Eppure, ogni volta che si specchia nella figura di Reed, vede il fantasma del proprio fallimento.
Persino in Secret Wars, quando adotta Valeria Richards – la figlia di Reed – come sua consigliera, lo fa non per amore, ma per ricreare un’illusione di superiorità morale e familiare. Costruisce una parodia perfetta della famiglia del suo rivale, nel tentativo di dimostrare che lui, Victor, può fare tutto meglio. Non si tratta più di dominio, ma di rivalsa.
Questo lo rende straordinariamente umano. Destino è, in fondo, l’incarnazione della sindrome dell’impostore che non riconosce i propri limiti. La sua perfezione, costruita con dedizione maniacale, è anche la sua condanna. Per quanto governi una nazione, per quanto affronti Thanos e lo distrugga a mani nude, per quanto possa ridicolizzare le Gemme dell’Infinito, resta schiavo della sua stessa insicurezza.
E se in questo ha il tratto comune dell’arroganza tipica dei villain, in lui essa prende la forma più sofisticata e tragica: l’arroganza dell’uomo che si crede Dio, e che tuttavia non può smettere di provare a convincersene.
È per questo che i fan della Marvel continuano ad amarlo. Perché Doom non è solo potente: è coerente, sfaccettato, radicalmente umano nei suoi difetti. È un personaggio che sfida non solo gli eroi, ma anche il lettore, costringendolo a confrontarsi con domande scomode. Un mondo governato da Doom sarebbe davvero peggiore? È giusto opporsi a chi porta ordine, se lo fa con pugno di ferro ma mente illuminata? E se l’unico difetto dell’uomo perfetto fosse il bisogno disperato di dimostrare che lo è?
In un panorama spesso polarizzato tra buoni e cattivi, Doom è l’eccezione che conferma la regola. Un villain che incarna il sublime e il miserabile dell’animo umano. Ed è proprio questo che lo rende immortale.
In un universo in cui persino gli dèi tremano, Victor Von Doom resta uno dei pochi in grado di guardarli negli occhi e dire: “Io sono il destino”.
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