Nel vasto e oscuro pantheon dei simbionti dell’universo Marvel, poche figure risultano tanto trascurate quanto Toxin, il “figlio” di Carnage, e quindi “nipote” di Venom. Una genealogia aliena che, a prima vista, potrebbe sembrare marginale, ma che, ad un’analisi più attenta, rivela un potenziale narrativo e simbolico enorme – forse il più ricco e inesplorato dell’intera stirpe.
Apparso per la prima volta nei primi anni 2000, Toxin viene concepito come una creatura così potente da spaventare persino i suoi progenitori. Al punto che due nemici giurati, Venom ed il sanguinario Carnage, si vedono costretti ad allearsi per tentare di eliminarlo prima che possa sviluppare pienamente le sue capacità. È una delle rare occasioni in cui l’universo Marvel ci mostra la paura negli occhi dei predatori: segno che qualcosa di veramente inedito era stato introdotto nella mitologia dei simbionti.
Ma chi è davvero Toxin? È un’entità simbiotica che si lega inizialmente a Patrick Mulligan, un agente della polizia di New York. La particolarità di questa fusione è la coesistenza tra simbionte e ospite: Toxin è tormentato da impulsi distruttivi ereditati dal suo lignaggio, ma cerca, con ostinazione, di seguire un codice morale. Mulligan lotta per mantenere il controllo, e il simbionte – a differenza di Carnage o Venom nelle loro fasi più selvagge – mostra una sincera volontà di cooperazione.
In questo, Toxin rappresenta una terza via, una mediazione tra le tendenze psicotiche di Carnage e l’ambigua moralità di Venom. È il primo simbionte che nasce già consapevole del proprio potenziale distruttivo e tenta, con fatica, di opporvisi. Una figura tragica, e per questo tremendamente umana.
Eppure, nonostante queste premesse, la Marvel non ha mai davvero scommesso fino in fondo su Toxin. Dopo alcune apparizioni di rilievo, il personaggio è rimasto ai margini, vittima di una narrazione che ha sempre preferito il fascino iconico di Venom o l’anarchia devastante di Carnage. Eppure, se si analizza la simbologia, è proprio in Toxin che risiede il conflitto più profondo: la lotta tra la mostruosità innata e l’umanità aspirata. Una dicotomia che lo rende un candidato ideale per una riflessione moderna sul concetto di eroe imperfetto.
E poi c’è un altro elemento da non trascurare: il rapporto con l’ospite. Se Carnage – come da tradizione – è fuso anima e corpo con il folle Cletus Kasady, quasi in una simbiosi perfetta quanto inquietante, Toxin si distingue per un dialogo interiore costante, fatto di frizioni, negoziazioni e, in alcuni momenti, tenerezza. È una relazione più complessa, più sfaccettata. Carnage vince per affinità assoluta. Ma Toxin affascina per il conflitto.
In un’epoca in cui il pubblico è sempre più attratto da personaggi moralmente ambigui, Toxin ha tutte le carte in regola per tornare al centro della scena. Non solo come “figlio di”, ma come incarnazione di un nuovo paradigma: la creatura che rifiuta il proprio destino genetico e cerca di plasmarsi da sola, tra mostruosità e redenzione.
Forse è tempo che la Marvel riprenda in mano questo simbolo inascoltato. Perché se è vero che ogni mostro porta dentro di sé un’eco dell’uomo che potrebbe essere, Toxin è la prova che anche nell’oscurità più nera può albergare una scintilla di luce. Basta solo il coraggio di raccontarla.
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