Per un’intera generazione, i robot giapponesi non erano semplici cartoni animati: erano miti televisivi, eroi in cui identificarsi, compagni di giochi e avventure che riempivano i pomeriggi dei bambini. Jeeg Robot d’Acciaio, Ufo Robot Goldrake e Mazinga Z furono più di personaggi animati: divennero fenomeni culturali di massa, capaci di monopolizzare l’immaginario collettivo dagli anni ’70 agli anni ’80.
Ma che fine hanno fatto quei colossi d’acciaio? Perché oggi non hanno più il ruolo dominante di un tempo? La risposta si nasconde tra cicli narrativi ripetitivi, mode generazionali e trasformazioni dell’industria dell’intrattenimento.
Il genere mecha (dal termine giapponese “mechanical”), esplose alla fine degli anni ’60 e si affermò negli anni ’70 grazie al genio creativo di Go Nagai, l’autore che rivoluzionò l’animazione nipponica. Prima di lui, i robot erano figure statiche, quasi magiche. Con Mazinga Z nacque il concetto di “super robot pilotato”: un ragazzo comune entrava dentro la macchina e ne diventava il cuore pulsante.
La formula funzionò alla perfezione e si diffuse rapidamente. Da quel momento, gli studi di animazione giapponesi sfornarono decine di serie simili, con variazioni minime sul tema. L’epoca d’oro durò oltre un decennio, coinvolgendo milioni di spettatori in Giappone, in Italia e in molti altri paesi.
Le serie mecha avevano una struttura fissa, tanto prevedibile quanto rassicurante. Si poteva quasi dividere ogni stagione in tre atti principali:
L’introduzione – Nelle prime puntate lo “scienziato buono” rivelava la minaccia aliena e presentava il robot terrestre segreto. Il protagonista, giovane e spesso impulsivo, diventava il pilota designato. Il nemico mostrava la sua forza, ma il robot – pur con difficoltà – riusciva a sconfiggerlo.
Il mostro della settimana – La fase più lunga della serie, in cui ogni episodio presentava un nuovo robot nemico creato dagli antagonisti. Dopo battaglie spettacolari, l’eroe trionfava immancabilmente. Questo schema era funzionale al palinsesto televisivo giapponese, che trasmetteva le puntate a cadenza settimanale.
Il gran finale – Negli episodi conclusivi i protagonisti portavano la guerra direttamente alla base nemica. Dopo una sequenza di duelli e colpi di scena, i cattivi venivano eliminati e la Terra finalmente liberata.
Spesso, a metà serie, entrava in scena un nuovo antagonista, più crudele e pericoloso del precedente: dal Conte Blocken che affiancava il Barone Ashura in Mazinga Z, al Gran Maresciallo che sostituiva il Generale Nero ne Il Grande Mazinga, fino a Zuril in Goldrake.
Le serie non erano prive di cliché: al fianco dell’eroe c’era quasi sempre un team di supporto formato dal genio con gli occhiali, dal ragazzo grassottello comico, dalla ragazza destinata a innamorarsi del protagonista e persino da un animale mascotte.
Alcuni autori introdussero varianti, come i robot componibili. In questi casi, più piloti guidavano macchine separate che si univano per formare un unico robot gigantesco. Tra i più famosi c’è Golion (Voltron), costituito da cinque robot-leoni di diversi colori.
Questa struttura avrebbe ispirato persino prodotti occidentali come i Power Rangers, che adottarono il modello narrativo del “mostro della settimana” e del robot combinato.
Negli anni ’70 e ’80 il mercato venne letteralmente invaso da serie mecha. Molte erano prodotte rapidamente per sfruttare la moda, e non tutte raggiunsero la qualità narrativa di Mazinga Z o Goldrake. La ripetitività cominciò a pesare e il pubblico iniziò a percepire i limiti del genere.
Eppure, proprio in questo contesto nacquero opere che seppero rompere gli schemi. La saga di Gundam, a partire dal 1979, introdusse un approccio più realistico: i robot non erano armi invincibili, ma strumenti di guerra in un contesto drammatico e politico.
Se Gundam aveva dato profondità militare al genere, fu Neon Genesis Evangelion (1995) a ribaltarlo completamente. La serie mescolava psicologia, filosofia e religione, trasformando i mecha in metafora dell’animo umano. Evangelion fu un successo planetario, ma rappresentò anche il canto del cigno di quella generazione di robot: il genere, ormai, aveva dato tutto.
Con l’arrivo degli anni ’90, i gusti del pubblico cambiarono. A dominare i palinsesti furono i battle shōnen, anime di combattimento come Dragon Ball, Naruto e One Piece. I mecha apparivano improvvisamente obsoleti, incapaci di competere con la freschezza e l’energia delle nuove serie.
Il genere non scomparve del tutto, ma perse centralità. Da pilastro dell’animazione, divenne un filone di nicchia.
A partire dagli anni 2000, l’industria provò a rilanciare i robot giapponesi con una serie di reboot e sequel. Alcuni titoli degni di nota sono:
Shin Mazinger Z (2009)
Jeeg Robot – Kotetsushin Jeeg (2007)
Getter Robo Armageddon e Shin Getter
Mazinga Z: Infinity (2017), che riportò il robot al cinema con un look moderno e animazioni in CGI.
Anche Ufo Robot Goldrake ha conosciuto un revival recente, mentre la saga di Gundam ha continuato a espandersi con nuovi capitoli, spin-off e universi alternativi, rimanendo l’unico vero franchise ancora in grado di attrarre pubblico e investimenti.
I risultati, tuttavia, sono stati altalenanti: se da un lato hanno fatto leva sulla nostalgia dei fan storici, dall’altro non sempre sono riusciti a conquistare le nuove generazioni.
Oggi i robot giapponesi non dominano più i palinsesti come un tempo, ma restano icone senza tempo. Hanno lasciato un segno indelebile nell’immaginario popolare: il coraggio, il sacrificio e la lotta per la salvezza della Terra sono valori che hanno cresciuto milioni di bambini.
La loro eredità sopravvive non solo nei reboot e nei sequel, ma anche nei prodotti che hanno tratto ispirazione dai loro schemi narrativi: dai Power Rangers ai moderni shōnen che rielaborano il concetto di squadra, sacrificio e battaglia epica.
Non torneranno forse mai a dominare come negli anni ’70 e ’80, ma rimarranno giganti dormienti: pronti a riemergere dall’acciaio e dalla memoria ogni volta che una nuova generazione sarà pronta a riscoprirli.
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