Batman anni ’60: tra nostalgia e parodia, perché la
serie di Adam West divide ancora il pubblico
C'è un momento, incastonato nella memoria collettiva, che per molti rappresenta l’inizio di un’avventura: Robin si rivolge a Batman prima di salire sulla Batmobile e proclama con enfasi: "Energia atomica alle batterie... Turbine alla velocità!". È una battuta tanto iconica quanto rivelatrice dello spirito che animava la serie TV “Batman” andata in onda tra il 1966 e il 1968, con protagonista Adam West nei panni del Cavaliere Oscuro. Oggi, a quasi sessant’anni dalla sua prima messa in onda, quella serie continua a suscitare reazioni contrastanti: c’è chi la ricorda con tenerezza, e chi la liquida come una buffonata psichedelica fuori controllo.
Ma perché questa doppia percezione? La risposta risiede in ciò che la serie voleva essere, e in come è stata recepita da diverse generazioni.
A differenza delle versioni cupe, tormentate e realistiche che si sarebbero imposte nel fumetto dagli anni ’80 in poi — basti pensare a The Dark Knight Returns di Frank Miller o ai film di Tim Burton e Christopher Nolan — il Batman anni ’60 era camp, volutamente esagerato, grottesco e teatrale. La serie non voleva essere presa sul serio, e proprio per questo funzionava: rifletteva l’estetica pop del tempo, parlava ai bambini, ma anche agli adulti con una strizzata d’occhio costante.
I colpi di scena erano letteralmente esplosivi, con onomatopee animate come BAM!, POW!, ZOK! che piovevano sullo schermo durante ogni scazzottata. Le scenografie erano sgargianti, le trame semplici e morali, i dialoghi impregnati di retorica da manuale civico. Batman non era un vigilante perseguitato dai fantasmi del passato, ma un paladino della legalità sorridente che dispensava lezioni di buona condotta tra un inseguimento e l’altro.
Nonostante il ruolo centrale di Adam West — il cui aplomb impassibile era perfetto per sottolineare l’assurdità del contesto — la vera anima della serie risiedeva nei suoi villain indimenticabili. Cesar Romero (Joker), Burgess Meredith (Pinguino), Frank Gorshin (l'Enigmista) e Julie Newmar (Catwoman) erano caricature geniali, teatrali e irresistibili, che spesso rubavano la scena con interpretazioni tanto sopra le righe quanto carismatiche.
In molti casi, la serie veniva seguita più per i cattivi che per gli eroi. E non era un difetto, ma una scelta narrativa consapevole: lo spettacolo funzionava proprio perché viveva sul confine sottile tra parodia e celebrazione del mito.
Per chi ha vissuto quell’epoca — o ha scoperto la serie nelle repliche successive — “Batman” è un ricordo d’infanzia, un appuntamento fisso, un ponte tra l’innocenza e l’evasione. Non c’era la pretesa di realismo, né la pressione della continuity o del multiverso: c’era solo il piacere di un’avventura sopra le righe, dove il bene e il male si sfidavano a colpi di travestimenti improbabili e diacronie morali.
Ed è proprio questo che genera lo scarto generazionale: chi ha scoperto Batman attraverso le letture moderne o i film più recenti, tende a vedere la serie anni ’60 come ridicola, obsoleta, infantile. Chi invece l’ha vissuta — o rivissuta con gli occhi del bambino che era — tende a ricordarla come una festa visiva, un inno alla leggerezza, un’espressione libera e disinibita di un'epoca che non aveva paura di essere naïf.
Un punto che molti fan ancora rimpiangono è la mancata inclusione di Adam West nei film moderni di Batman, nemmeno in forma di semplice cameo. È un’assenza che brucia, non solo per motivi affettivi, ma perché West ha incarnato per milioni di spettatori il volto sorridente e gentile del Cavaliere Oscuro, contribuendo a farne un fenomeno pop globale.
In un universo cinematografico che ha saputo dare spazio a molti omaggi — da Michael Keaton a George Clooney — l’assenza di West nei film DC è una lacuna simbolica: la mancata riconciliazione tra l’ironia del passato e la gravitas del presente.
La serie di Batman con Adam West non è mai stata un
errore di tono, ma una precisa scelta culturale, un ritratto
del tempo in cui è nata. Era camp, era kitsch, era volutamente
assurda. Eppure, nel suo eccesso, è diventata un classico.
Che tu
la ricordi con affetto o con un sorriso imbarazzato, resta il fatto
che — tra mille versioni dell’Uomo Pipistrello — questa
è forse l’unica che ha avuto il coraggio di ridere di se stessa,
e di farlo con eleganza.