lunedì 14 luglio 2025

La notte eterna di Batman: perché l’anello di Lanterna Verde lo rifiuta

 


Nell’universo dei supereroi, le armi non sono solo strumenti, ma spesso riflessi dell’anima di chi le impugna. Tra le più iconiche, gli anelli del potere delle Lanterne Verdi rappresentano un'idea tanto affascinante quanto radicale: non basta essere forti o virtuosi, bisogna possedere la capacità di superare una grande paura. Questo criterio di selezione, inscritto nei codici degli anelli forgiati dai Guardiani dell’Universo, rappresenta un filtro che esclude non solo i codardi, ma anche coloro che non possono — o non vogliono — abbandonare le proprie paure. E Bruce Wayne, alias Batman, rientra proprio in questa categoria.

L'episodio chiave si trova in Green Lantern Vol. 4 #9 del 2006. Hal Jordan, la Lanterna Verde più famosa della Terra, porge a Batman il proprio anello per metterlo alla prova. È un gesto carico di tensione, quasi una sfida personale, ma anche una forma di rispetto. Bruce Wayne accetta. Indossa l’anello, cerca di usarlo, ma qualcosa lo trattiene. Il costrutto che genera è il riflesso stesso della sua origine: una proiezione dei suoi genitori, Thomas e Martha Wayne, poco prima che vengano assassinati in Crime Alley. Un momento potentissimo. Il cuore della sua tragedia personale materializzato davanti ai suoi occhi. Poi, però, Bruce fa ciò che ci si aspetta da lui: lascia andare l’illusione. “Non voglio. Non ancora”, dice. Poi si sfila l’anello e lo restituisce a Hal, ringraziandolo con una cortesia tanto formale quanto glaciale. È in quel gesto che si annida la verità: Batman non vuole superare quella notte. Non ancora.

Il punto è sottile, ma essenziale. Bruce può superare le sue paure, ma sceglie di non farlo. Non perché sia debole. Non perché sia vigliacco. Ma perché è Batman. E Batman esiste proprio in quella crepa emotiva lasciata aperta dal trauma della sua infanzia. È un uomo che ha incanalato il dolore in uno scopo, e che considera quella ferita un elemento imprescindibile della propria identità. Rinunciarvi significherebbe rinunciare a se stesso. Significherebbe forse guarire — ma perdere Batman.

La mitologia delle Lanterne Verdi è fondata su una dialettica molto precisa: la paura esiste, è naturale, ma chi è scelto dall’anello è colui che può elevarsi oltre essa. Non eliminarla, ma superarla. E proprio qui sorge l’ostacolo per Bruce. La sua forza, la sua disciplina, la sua tenacia non sono messe in discussione. Il problema è che la sua paura è anche la sua benzina. Il timore che altri bambini possano perdere i genitori a causa della criminalità, l’orrore di rivivere quell’istante, la paura costante del fallimento: tutto questo non viene combattuto in senso risolutivo, ma viene trasformato in uno scudo, in un’arma. Batman è, nel profondo, il simbolo della gestione della paura, non della sua trascendenza.

È per questo che il comportamento di Bruce si scontra con l’etica del Corpo delle Lanterne Verdi. Non è una questione morale, ma filosofica. Le Lanterne Verdi sono emissari di speranza, ordine, equilibrio. Batman è l'ombra che protegge Gotham con metodi che a volte rasentano la paranoia, un uomo che si alimenta di controllo e sorveglianza, che vive nell’ossessione di non ripetere l’errore originario. In un certo senso, Bruce è incapace di lasciare andare, perché non vuole lasciare andare. Se lo facesse, forse potrebbe finalmente dormire. Ma chi veglierebbe allora su Gotham?

Questa divergenza rende Batman uno dei personaggi più affascinanti dell’intero panorama fumettistico. A differenza di molti altri eroi, non è interessato alla redenzione o alla pace interiore. Il suo scopo non è raggiungere l’equilibrio, ma mantenere una forma funzionale di squilibrio. Esiste per compensare un’ingiustizia e per prevenire che accada ancora. Il che, paradossalmente, lo rende più umano di qualsiasi Lanterna. Perché mentre Hal Jordan o John Stewart possono affidarsi al potere cosmico della volontà pura, Bruce ha solo la sua mente, il suo corpo, la sua rabbia.

Tuttavia, questo non significa che Batman non sarebbe un eccellente membro del Corpo delle Lanterne, se solo lo volesse. Le storie alternative, come Batman: In Darkest Knight, immaginano un universo in cui Bruce riceve davvero l’anello. E il risultato è terrificante: un Batman con il potere illimitato dell’anello diventa quasi una divinità del controllo assoluto. In quelle trame speculative, il punto non è solo “e se Batman avesse il potere”, ma “cosa farebbe un uomo come lui, con quel potere”. La risposta è quasi sempre: lo userebbe in modo ossessivo, calcolato, spietato. Un’anomalia nel Corpo delle Lanterne.

È interessante anche notare che, sebbene non sia compatibile con il Corpo Verde, Batman abbia avuto interazioni significative con altre emozioni dello spettro: in Blackest Night, ad esempio, viene brevemente evocato come Black Lantern, simbolo di morte. In altri scenari alternativi, si è visto cosa accadrebbe se indossasse un anello rosso (rabbia) o addirittura uno giallo (paura), dimostrando che Bruce è un crocevia emotivo potentissimo, troppo potente forse per essere limitato da una sola sfumatura.

Quindi no, Batman non è stato scelto da un anello delle Lanterne Verdi, non perché sia manchevole, ma perché ha scelto di essere chi è. E chi è, esiste dentro la paura. Batman non vuole superarla. Non ancora. Perché la notte in cui morì Bruce Wayne è la stessa in cui nacque Batman. E l’anello, in fondo, non può brillare su ciò che si rifiuta di spegnere.


domenica 13 luglio 2025

Se i cattivi di Batman camminassero tra noi

Mi sono chiesto spesso che cosa accadrebbe se alcuni dei più famosi supercriminali di Gotham uscissero dalle pagine dei fumetti o dallo schermo per infilarsi nella nostra realtà. Un’ipotesi da romanzo distopico? Forse. Ma non tanto quanto si potrebbe pensare. I cattivi di Batman, più di molti altri nell’universo dei supereroi, sono archetipi inquietanti di disfunzioni reali. Uomini e donne spezzati, spesso spinti oltre il limite da traumi, ingiustizie, o un'intelligenza portata fino all’autodistruzione. Ma, tra tutti, chi funzionerebbe davvero nel mondo reale?

Chi, se esistesse oggi, rappresenterebbe una minaccia concreta, difficile da contenere?

Parto dal più suggestivo: Mr. Freeze. Il suo nome è sinonimo di tecnologia e tragedia. Dietro l’elmetto criogenico e la tuta refrigerante c’è Victor Fries, uno scienziato la cui disperazione per salvare la moglie malata lo trasforma in un uomo letteralmente congelato nel dolore. Ora, ipotizziamo che nella realtà esista una pistola in grado di congelare istantaneamente un bersaglio. Improbabile? Certo. Ma non totalmente impossibile. Le armi a microonde esistono. Le tecnologie di raffreddamento istantaneo sono oggetto di studio. Se un individuo dotato delle competenze di Fries riuscisse a sviluppare anche solo un rudimentale prototipo, gli effetti sarebbero devastanti. Una persona in grado di immobilizzare interi gruppi armati senza sparare un colpo sarebbe, nel mondo reale, una minaccia quasi insormontabile. Non parliamo di un delinquente qualsiasi, ma di uno scienziato motivato, spinto da un dolore personale, che non vuole distruggere il mondo, ma piegarlo al proprio scopo: curare l’amore della sua vita. È questo a renderlo pericoloso. Non la pistola, ma la determinazione assoluta. Il fatto che, in un certo senso, non si consideri neanche un criminale.

Passiamo all’Enigmista. Edward Nygma, il genio dei giochi mentali. Nei fumetti e nei film, il suo tratto distintivo è la compulsione a disseminare indovinelli e tracce che rivelano, in anticipo, le sue stesse mosse. È qui che la fantasia mostra la corda. Nella vita reale, un criminale non trarrebbe vantaggio dal comportarsi così. Se un terrorista inviasse indizi criptici su dove piazzerà la bomba, verrebbe intercettato molto prima dell’esplosione. L’Enigmista sarebbe quindi più una curiosità che una reale minaccia. Affascinante, certo, e dotato di un’astuzia fuori dal comune, ma fondamentalmente inefficace nel mondo reale. Trascorrerebbe il resto della vita a chiedersi perché nessuno prenda sul serio i suoi rompicapi.

Poi c’è lui. Il Joker. Ma non uno qualunque: quello interpretato da Heath Ledger ne Il Cavaliere Oscuro. È qui che il discorso cambia radicalmente. Quella versione del clown principe del crimine non è solo disturbata, è deliberatamente distruttiva. Un vero agente del caos, come lui stesso si definisce. Il punto non è tanto che sia geniale, quanto che sia disposto a morire pur di far esplodere le sue idee nel mondo. E in questo, ha una pericolosità che travalica ogni difesa tradizionale. Perché? Perché uno degli elementi fondamentali della deterrenza – la paura della morte – per lui non vale. I criminali più feroci, nella realtà, spesso sono quelli che non hanno più nulla da perdere. Ma il Joker di Ledger va oltre: ha scelto di non voler nulla, tranne l’entropia. Non cerca il denaro. Non desidera potere. Vuole solo vedere tutto bruciare. Se una mente come la sua esistesse davvero, e riuscisse ad accedere a risorse, armi, tecnologia… saremmo di fronte a un problema quasi insolubile. Ogni forza di polizia è progettata per contrastare il crimine razionale. Ma come si ferma un’idea che non ha paura di morire? Come si ferma un uomo che si traveste da clown per ridere mentre il mondo crolla?

E non è una domanda accademica. I profili psicologici degli attentatori suicidi, dei terroristi che compiono stragi senza la minima intenzione di sopravvivere, mostrano una verità che spesso ci rifiutiamo di affrontare: se togli a qualcuno il rispetto per la propria vita, diventa una bomba vagante. Il Joker, nel film, pianifica rapine in cui fa uccidere i suoi complici a catena, manovra le folle come pedine e mette alla prova la moralità stessa di Gotham. È un anarchico puro. E nel nostro mondo, l’anarchia pura è una fiamma che si spegne solo quando ha bruciato tutto.

Ora, immaginate invece il Joker di Cesar Romero. Sì, quello degli anni ’60, con il trucco da clown passato sopra i baffi che non voleva rasarsi. In quel caso, il crimine lascia il posto alla farsa. Sarebbe deriso dagli stessi criminali con cui tenterebbe di lavorare. Una figura tragicomica, incapace di incutere timore anche solo in un vicolo malfamato. Forse riuscirebbe a mettere insieme qualche colpo da piccolo truffatore, ma nessuna autorità lo considererebbe una minaccia sistemica. Sarebbe una curiosità locale, forse una celebrità di TikTok, ma non certo un nemico pubblico.

E poi c’è Tutankhamon. Un professore di Yale che, in seguito a un colpo alla testa, si convince di essere la reincarnazione del faraone egizio. Ogni trauma cranico lo fa ricadere nello stesso delirio megalomane. È chiaro che una figura del genere, nella realtà, non sarebbe mai un criminale attivo. Sarebbe probabilmente internato in una clinica psichiatrica. Chi prenderebbe il rischio di rilasciare un uomo che, a ogni urto, crede di governare l’antico Egitto? Nessun sistema giudiziario, per quanto disfunzionale, permetterebbe un simile errore. E in effetti il fascino di personaggi come Tutankhamon sta proprio nella loro assurdità narrativa. Sono caricature che funzionano solo in un mondo dove tutto è possibile e nulla è permanente.

Nel considerare l’efficacia dei nemici di Batman nel nostro mondo, emerge un paradosso interessante. I più realistici, i più pericolosi, sono quelli meno appariscenti. Quelli che rinunciano ai gadget iper-tecnologici, ai costumi teatrali, agli scherzi da circo. Il vero nemico, quello che potrebbe esistere tra noi, è quello che ha già rinunciato a tutto, compresa la propria salvezza. È la mente brillante che smette di avere speranza. È il caos incarnato, non nel trucco da clown, ma nella volontà distruttiva lucida, implacabile, irridente. È lì che la fiction diventa più vera della realtà. E forse è anche per questo che Batman, tra tutti i supereroi, è quello che ci spaventa e ci attrae di più: perché combatte contro mostri che ci somigliano fin troppo.



sabato 12 luglio 2025

“Il Joker di Freccia Verde? L’Arciere solitario e i suoi nemici dimenticati”

Green Arrow – o Freccia Verde, per il pubblico italiano – non ha mai avuto un nemico iconico alla stregua del Joker di Batman, del Lex Luthor di Superman o del Sinestro di Lanterna Verde. Non perché manchino gli avversari, ma perché la natura del personaggio stesso – e delle storie che lo circondano – ha sempre privilegiato il dramma umano, le questioni sociali, la politica e i dilemmi morali, piuttosto che l’epica binaria dell’eroe contro il suo perfetto opposto.

Tuttavia, se un nome può essere accostato a quello di un arcinemico per Freccia Verde, è Merlyn. Apparso per la prima volta in Justice League of America #94 nei primi anni ’70, Merlyn è l’arciere oscuro: un rivale tecnico, un’ombra in grado di eguagliare (e in alcuni casi superare) le abilità di Oliver Queen. In origine era solo un uomo ossessionato dalla sconfitta subita in un torneo di tiro con l’arco, ma nel tempo la sua storia si è arricchita di nuove sfumature, specialmente in seguito alla popolarità della serie televisiva della CW, Arrow. Qui Merlyn – Malcolm Merlyn, alias il Cavaliere Oscuro – è diventato una figura centrale, legata anche a Ra’s al Ghul e alla Lega degli Assassini, guadagnando una mitologia personale che nella versione cartacea era solo abbozzata.

Uno dei suoi momenti più intensi risale a Green Arrow #59, durante l’arco narrativo scritto da Judd Winick. In questa storyline, Merlyn si allea con il Dottor Light e orchestra un piano devastante: colpire non tanto Freccia Verde, quanto tutto ciò che ama. Non riescono a distruggere la “famiglia Arrow”, ma riescono a seminare il caos a Star City, lasciando cicatrici profonde. È un attacco personale, chirurgico, che ricorda – in tono minore – l’intensità con cui il Joker si insinua nella vita di Batman. Ma Merlyn non appare con la frequenza ossessiva del clown di Gotham, e forse è un bene: ogni sua apparizione, così, conserva una gravitas narrativa più marcata.

Accanto a lui, altri villain si contendono un posto nel pantheon dei nemici storici di Freccia Verde. Il Conte Vertigo è un avversario classico, nato come antagonista di Black Canary e poi diventato una costante minaccia per Ollie. Ma la sua presenza è irregolare, e spesso ridimensionata nel corso degli anni. Un tempo figura tragica e disturbata, oggi è più un personaggio di contorno che un motore della narrazione.

Più concreto, nel mondo criminale di Star City, è Brick. Creato da Judd Winick, Brick è un boss della malavita dalla pelle impenetrabile e dalla mente astuta: una sorta di Kingpin per Freccia Verde, più orientato al controllo territoriale e alla supremazia sociale che non alla vendetta personale. È il simbolo del crimine organizzato contro cui Ollie lotta non solo con arco e frecce, ma anche con la sua attività politica e sociale.

E poi c’è Deathstroke. Nato come nemico dei Teen Titans, Slade Wilson è un mercenario spietato, e uno dei personaggi moralmente più ambigui dell’universo DC. Ha incrociato più volte la strada di Freccia Verde, soprattutto nella serie di Mike Grell e poi in quella di Judd Winick. Alleati riluttanti in alcune occasioni, rivali mortali in altre, i due hanno sviluppato una dinamica tesa e credibile, ulteriormente rafforzata dall’adattamento televisivo. In Arrow, Slade è tra gli antagonisti più letali, un riflesso oscuro delle debolezze e degli errori del protagonista.

Tuttavia, la critica spesso muove un’obiezione ricorrente: Freccia Verde non ha una galleria di villain all’altezza. Una galleria che, per quantità e qualità, possa essere paragonata a quella di altri “big” DC. Ma questo è anche uno dei punti di forza del personaggio. L’assenza di un nemico iconico permette alla narrativa di concentrarsi su ciò che rende Freccia Verde davvero interessante: la sua dimensione politica, il suo spirito ribelle, il suo essere eroe per scelta e non per destino.

Oliver Queen è un uomo che ha fatto molti errori, che spesso si mette in discussione, che lotta per cause più grandi di sé – e che non ha bisogno di uno specchio deformante come il Joker per rendere le sue storie potenti. In effetti, il suo peggior nemico è spesso se stesso. E quando una freccia manca il bersaglio, non è sempre per colpa del vento.



venerdì 11 luglio 2025

"Supereroi d’Oltreoceano? L’Europa li ha da millenni (solo non li chiama così)"

“Perché l’Europa non ha supereroi?” È una domanda che, se posta con leggerezza, può sembrare un’innocua provocazione. Ma se presa sul serio, rivela un fraintendimento culturale più profondo: l’idea che i supereroi, per essere tali, debbano necessariamente indossare tutine in spandex, vivere a New York (mascherata da Metropolis o Gotham) e combattere il crimine con un misto di poteri paranormali e traumi irrisolti. Eppure, scavando nella memoria culturale del continente europeo, ciò che emerge è un pantheon di figure mitiche, leggendarie e letterarie che incarnano proprio gli archetipi dell’eroe sovrumano. Solo, come spesso accade da questa parte dell’Atlantico, lo fanno con meno fanfara e più stratificazione storica.

Il caso più emblematico? Ercole. O, per i più filologici, Herakles. Protagonista di imprese ciclopiche, dai mostri alle fatiche impossibili, è forse il primo esempio di “superumano” nella cultura occidentale. È stato divinizzato, immortalato nell’arte e – cosa significativa – continua a comparire nei media moderni, incluso il Marvel Cinematic Universe. Non è un caso se la stessa Hollywood, quando ha voluto un dio con il martello, ha attinto al folklore norreno per sfornare Thor, completo di mantello, muscoli e martellone. Altro che assenza di supereroi europei: sono le fondamenta stesse del concetto moderno.

Lo stesso vale per Robin Hood, genio dell’arco e maestro del travestimento. Le sue gesta, a metà tra leggenda e cronaca, risalgono almeno al XIII secolo. Ruba ai ricchi per dare ai poveri, sfida l’autorità corrotta, combatte per la giustizia: è un archetipo supereroico ante litteram. Non a caso, ispirerà figure come Occhio di Falco e Freccia Verde. E mentre la DC Comics sforna vigilanti in calzamaglia, la tradizione britannica può contare su un fuorilegge dal cuore nobile che affronta lo Sceriffo di Nottingham con arco e cervello.

E poi c’è Merlino. Magia, profezie, alleanze segrete, un apprendista re (Artù) e un’epica tavola rotonda. Se Doctor Strange ha un predecessore, non è certo uno stregone tibetano, ma il mago bretone per eccellenza. La saga arturiana – con cavalieri, spade leggendarie, profezie e mostri – ha tutti gli ingredienti della moderna narrativa supereroistica, solo declinati in chiave medievale, simbolica e profondamente europea.

Chi pensa che tutto ciò sia folklore, dimentica che anche i supereroi americani hanno radici mitologiche. Superman è un Mosè alieno cresciuto in Kansas. Batman è il Conte di Montecristo in versione noir. Hulk è l’eco furiosa del dottor Jekyll e Mr. Hyde. Il parallelismo è fin troppo evidente. Anzi, spesso le figure europee sono direttamente riciclate nelle narrazioni a stelle e strisce. Si prenda La Lega degli Straordinari Gentlemen di Alan Moore: una squadra composta da personaggi letterari europei – Mina Harker, Allan Quatermain, l’Uomo Invisibile, Jekyll/Hyde – riletti come un team di supereroi ante litteram. Basta spostarli di contesto per renderli perfettamente compatibili con i gusti moderni.

Certo, si potrebbe obiettare che l’Europa non ha una Marvel o una DC Comics. Ed è vero: l’industria del fumetto europeo ha avuto uno sviluppo differente, meno uniforme e più legato alla tradizione autoriale. Ma le eccezioni non mancano.

Judge Dredd, partorito dalle pagine della britannica 2000 AD, è un vigilante distopico di feroce attualità. Tank Girl, caotica, punk e anarchica, è figlia di una cultura fumettistica radicale. E se è vero che le loro storie sono ambientate in un futuro iperamericano o in una Australia post-apocalittica, l’imprinting europeo è innegabile.

L’assenza di supereroi europei è un mito narrativo, alimentato da un immaginario globale dominato dalle majors statunitensi. Ma scavando un po’ sotto la superficie, ci si accorge che l’Europa ha creato gli archetipi su cui si regge l’intera mitologia supereroica contemporanea. Solo che, anziché pubblicarli in serie mensili, li ha affidati ai secoli, alla letteratura, alla mitologia. E in fondo, basta un mantello (o una spada) per trasformare un eroe leggendario in un supereroe. Da noi succedeva già quando New York era ancora solo un villaggio olandese chiamato Nieuw Amsterdam.


giovedì 10 luglio 2025

Batman 1943: L’Oscura Origine del Cavaliere Mascherato al Cinema

Nel cuore degli anni Quaranta, con l’America immersa nel conflitto della Seconda guerra mondiale, fece la sua comparsa sul grande schermo il primo Batman della storia: Lewis Wilson, accompagnato da Douglas Croft nel ruolo di Robin. Era il 1943, e The Batman, serial cinematografico in 15 episodi prodotto dalla Columbia Pictures, debuttava nei cinema come intrattenimento settimanale dal forte accento patriottico. Un Batman rudimentale, meno tecnologico, ma già capace di imprimersi nell’immaginario collettivo. La domanda, per chi lo riscopre oggi, è lecita: come faceva Bruce Wayne a proteggere la sua identità segreta in un mondo privo di gadget, sorveglianza digitale o Batcomputer?

La risposta sta tutta nella semplicità narrativa dell’epoca. Niente telefono rosso, nessuna Batmobile ipertecnologica, nessun tracciamento. Il Batman del 1943 agiva nell’ombra con metodi da investigatore privato, senza il supporto della polizia, né uno schema codificato di comunicazione. La linea telefonica con il commissario Gordon — resa iconica solo decenni dopo — non esisteva ancora. Le comunicazioni erano essenziali, dirette o affidate al fedele Alfred, e l’interazione con le autorità era minima.

A differenza delle versioni successive, non c’era il bisogno di spiegare nulla al pubblico. L’identità segreta di Batman era un elemento protetto da un patto implicito tra spettatori e sceneggiatura: la maschera bastava. Nessuno, nel mondo narrativo, si chiedeva chi fosse il vigilante in costume. Nemmeno il temibile Dr. Daka, villain principale e stereotipo propagandistico dell’“invasore orientale”, cercava di smascherarlo. Batman era semplicemente Batman.

In effetti, la logica investigativa sul personaggio non esisteva. Bruce Wayne si muoveva nel suo ruolo pubblico di milionario filantropo, mentre di notte indossava il costume senza dover rendere conto a nessuno. Guidava un’auto comune, non una Batmobile blindata. Nessun quartier generale spettacolare: la Batcaverna — che pure compare in forma primitiva — non è un centro operativo, ma uno sfondo scenico. E Alfred, interpretato da William Austin, aveva un ruolo più comico che operativo, pur fungendo da unico complice e custode del segreto.

L’assenza di tecnologia di tracciamento, unita a un contesto cinematografico ancora lontano dalla serialità complessa moderna, rendeva inconcepibile una minaccia concreta all’identità segreta di Batman. Nessuna intercettazione telefonica, nessuna analisi balistica, nessun confronto tra Bruce Wayne e il Cavaliere Oscuro. La narrazione, più teatrale che realistica, non sollecitava quel tipo di attenzione. E il pubblico dell’epoca, affamato di avventura e simboli rassicuranti in tempo di guerra, non cercava coerenza logica, ma eroi in cui credere.

E così, senza bisogno di protezioni tecnologiche né spiegazioni intricate, Batman riusciva a mantenere il suo segreto. Perché lo spettatore accettava, senza riserve, che bastasse una maschera e una voce cavernosa per diventare irriconoscibile.

Un approccio datato? Sì. Ma anche un’istantanea affascinante di un’epoca in cui bastava davvero poco per far volare l’immaginazione. E in fondo, come dice la voce fuori campo nella mente di ogni nostalgico: non pensarci troppo... e sorridi.



mercoledì 9 luglio 2025

Victor Von Doom: La Forza di un Uomo Senza Potenziamenti


Senza l’uso della magia o della tecnologia, Victor Von Doom, noto come Dottor Destino, rimane comunque un individuo eccezionale, ma non sovrumano.

Fisicamente, non possiede potenziamenti biologici o superpoteri innati. Il suo corpo non è stato alterato geneticamente, non è stato sottoposto a sieri del super soldato, né a mutazioni. Non è un metaumano né un mutante. È un essere umano normale, biologicamente parlando, ma al picco assoluto delle capacità umane.

Senza armatura né incantesimi, Doom è un combattente d'élite:

  • Forza e resistenza fisica comparabili a quelle di atleti di livello olimpico, come Daredevil o Captain America (quest’ultimo potenziato, ma Doom arriva a sfiorarne le prestazioni attraverso disciplina e allenamento);

  • Esperto di arti marziali, schermidore e stratega da campo;

  • Riflessi e coordinazione ben sopra la media;

  • Addestrato nel combattimento corpo a corpo anche in ambienti ostili.

Ha miglioramenti biologici?

No, non ne ha mai avuti.
Questo è un punto cruciale del suo personaggio. Doom rifiuta l’idea di alterare biologicamente il proprio corpo, non per incapacità, ma per orgoglio e ideologia. Si considera già perfetto: la sua mente, la sua volontà e il suo intelletto sono per lui più che sufficienti per dominare ogni sfida, incluse quelle fisiche.

Doom non vuole diventare più forte modificando se stesso, perché:

  • Ritiene che la mente governi il corpo e non il contrario;

  • Considera ogni forma di potenziamento forzato una debolezza mascherata da forza;

  • Vede l'alterazione del proprio corpo come una contaminazione della sua purezza intellettuale;

  • Il suo ego assoluto lo spinge a voler vincere con la propria forza e ingegno, non per mezzo di potenziamenti esterni al suo controllo.

In sintesi

  • Doom senza potenziamenti è al limite della condizione umana: forte, agile, resistente, intelligente, disciplinato.

  • Non ha potenziamenti biologici, per scelta filosofica e ideologica.

  • Anche senza armatura o magia, può affrontare e battere combattenti altamente addestrati.

  • La sua volontà incrollabile è un’arma a sé stante: in molte storie viene descritta come la più potente sulla Terra, capace di resistere a torture, manipolazioni psichiche e persino controllo mentale.

Victor Von Doom crede che la vera superiorità non stia nel corpo, ma nella volontà di dominarlo. Ed è proprio questo che lo rende pericoloso anche quando spogliato di tutto.



lunedì 7 luglio 2025

Perché la respirazione solare è considerata la tecnica di respirazione più potente?


La respirazione solare, nota anche come il Respiro del Sole, rappresenta la radice e la forma più pura tra tutte le tecniche di respirazione esistenti. Il motivo per cui è universalmente riconosciuta come la più potente non risiede in miti o leggende, bensì nella sua struttura originaria, da cui tutte le altre tecniche derivano. Sviluppata da Yoriichi Tsugikuni, il più grande cacciatore di demoni della storia, questa tecnica fu concepita come un metodo supremo per affrontare le creature più temibili. Tuttavia, il Respiro del Sole presenta una difficoltà estrema: la sua esecuzione è pressoché impossibile per chiunque non sia dotato di un lignaggio specifico, come quello di Yoriichi stesso o dei discendenti della famiglia Kamado.

Per questo motivo, i successivi cacciatori di demoni, pur riconoscendo la sua efficacia, hanno dovuto modificare e adattare la tecnica per renderla accessibile. Nascono così le sei tecniche di respirazione principali, ciascuna modellata in base allo stile di combattimento e alle peculiarità di ogni hashira originale: Respiro della Fiamma, del Vento, del Calcolo, del Tuono, dell’Acqua e della Luna. Queste varianti, sebbene potenti, sono essenzialmente derivazioni della tecnica solare originale, ma con una notevole riduzione nella purezza e nella forza intrinseca del metodo originario.

Nel corso del tempo, ulteriori adattamenti e innovazioni hanno portato alla creazione di tecniche specializzate, come il Respiro dell’Amore, della Bestia, del Suono, del Serpente e dell’Insetto, sviluppate dai rispettivi pilastri contemporanei per adeguarsi alle loro caratteristiche uniche. È probabile che molte altre tecniche siano state ideate e poi dimenticate, utilizzate da cacciatori ormai scomparsi, suggerendo una tradizione ricca ma spesso nascosta.

Infatti, cinque delle quattordici Tecniche di Respirazione conosciute sono state create dai rispettivi specialisti:

  • Amore (Mitsuri)

  • Bestia (Inosuke)

  • Suono (Uzui)

  • Serpente (Obanai)

  • Insetto (Shinobu)

Direi che ci sono probabilmente decine, se non centinaia, di tecniche di respirazione che non vediamo mai perché il loro unico utilizzatore è qualche hashira defunto da tempo. Se quasi la metà dei pilastri moderni ha creato le proprie tecniche, di certo non sono gli unici.

L’essenza del Respiro del Sole non risiede dunque in una presunta superiorità conferita da un evento fortuito, ma nella sua qualità intrinseca di tecnica originaria, perfetta e completa. Le altre tecniche non sono altro che versioni adattate, semplificate o modificate da coloro che non possedevano la capacità di dominarla pienamente. Da questa prospettiva, la respirazione solare rimane la pietra angolare di tutte le discipline respiratorie, simbolo di una potenza senza pari che solo pochi eletti possono aspirare a padroneggiare.