sabato 19 aprile 2025

Può Wonder Woman Sconfiggere Superman? La Verità Dietro la Semidea Guerriera della DC

Nel vasto e mutevole universo narrativo della DC Comics, la domanda su chi sia davvero il più forte tra i supereroi è stata posta infinite volte. Ma tra tutte le sfide ipotetiche, quella tra Superman e Wonder Woman è forse la più affascinante. Non solo per la potenza devastante che entrambi possiedono, ma per ciò che rappresentano: la speranza invincibile contro la volontà inarrestabile.

Diana di Themyscira, conosciuta come Wonder Woman, è una semidea con un’eredità divina e una formazione che affonda le radici nella mitologia e nella guerra. Ma quanto è davvero forte?

La risposta non è semplice, perché nei fumetti tutto – come spesso si dice – dipende dall’autore. Ma ci sono imprese costanti nel tempo, atti ripetuti più volte in varie continuity, che ci permettono di delineare una stima credibile del suo massimo potenziale.


Imprese straordinarie

  • Sostegno planetario: Wonder Woman ha letteralmente aiutato a sostenere il peso della Terra insieme a Superman e Martian Manhunter, in una scena che ha segnato una delle sue dimostrazioni di forza più celebri.

  • Controllo del Sole: Nella run Justice League Dark, Diana ha utilizzato il Lazo della Verità per trascinare il sole. Non un’iperbole narrativa, ma una rappresentazione concreta del suo potere divino amplificato.

  • Confronti con divinità e semidei: Ha ucciso Ares, ha sconfitto Supergirl in combattimento, e in alcune versioni ha annientato avversari del calibro di Shazam. Nella saga Dead Earth, ha spazzato via interi eserciti mutati senza battere ciglio.

  • Resistenza assoluta: Ha resistito a esplosioni di scala planetaria, manipolazioni temporali e attacchi cosmici. In Flashpoint, sopravvive e contrattacca anche contro attacchi letali lanciati da Aquaman e altri metaumani.

Questi atti non sono solo spettacolari. Indicano che il suo livello di forza massima è comparabile a quello dei più potenti esseri dell’universo DC.

Ma può battere Superman?

La risposta, sorprendentemente per alcuni, è sì. Ma la realtà è più sfumata. Superman, per livello di potenza grezza, è generalmente superiore. Ma Wonder Woman ha tre vantaggi chiave:

  1. Addestramento marziale superiore
    Diana è stata addestrata fin da bambina nell’arte della guerra, da alcune delle migliori combattenti dell’universo, e vanta millenni di esperienza. Superman, sebbene potentissimo, non ha una formazione paragonabile nel corpo a corpo puro.

  2. Mentalità da guerriera
    Superman combatte per contenere e difendere. Wonder Woman, quando è necessario, combatte per uccidere. In Injustice, Flashpoint, e Dead Earth, Diana dimostra più volte di essere pronta a superare il limite morale che Clark Kent si impone. Questo la rende letale in uno scontro a tutto campo.

  3. Equipaggiamento divino

    • Lazo della Verità: più che una semplice corda, può vincolare esseri cosmici e piegare anche le menti più resistenti.

    • Bracciali d’Atena: deviano energia, magia, attacchi mistici e perfino colpi diretti da Darkseid o Doomsday.

    • Tiara e Spada: la prima è stata usata come arma letale in diverse continuity, la seconda ha ferito esseri immortali, divinità e persino il tempo stesso.


A conti fatti, Diana può affrontare e sconfiggere esseri del livello di Superman. Ha le armi, la mentalità, la forza e l’esperienza per farlo. È meno potente in termini assoluti? Sì. Ma in uno scontro reale, la potenza pura non è l’unico fattore. Ecco perché in diversi racconti – Kingdom Come, The Hiketeia, Dead Earth, Injustice – Wonder Woman riesce ad avere la meglio.

In uno scenario teorico di 10 combattimenti uno contro uno:

  • Superman probabilmente vincerebbe 5 o 6 volte, grazie alla sua velocità, forza e resistenza superiori.

  • Wonder Woman vincerebbe 4 o 5 volte, sfruttando il vantaggio strategico, l’abilità nel corpo a corpo e la volontà di colpire per uccidere.

Il margine è sottile. Ma va detto chiaramente: Diana non è una "seconda scelta". È una forza della natura, una divinità guerriera che, nelle giuste condizioni, può battere Superman. Non perché sia più forte, ma perché è più pericolosa.

In un universo narrativo dove la forza è spesso relativa al bisogno della trama, Wonder Woman rimane uno dei personaggi più costantemente e versatilmente potenti mai concepiti. Non è la più forte in assoluto, ma è quella che meno vorresti affrontare in uno scontro di vita o morte.

La domanda “può sconfiggere Superman?” ha una risposta affermativa, ma condizionata. Dipende da chi scrive, da cosa è in gioco e da quanto Diana sia disposta a spingersi oltre i limiti. Una cosa, però, è certa: la distanza tra loro è molto più piccola di quanto molti pensino.



.Chi è Bullseye?

 

Nell’universo affollato e complesso della Marvel Comics, pochi antagonisti incarnano con tanta crudezza la pura malvagità come Bullseye. Spietato, sadico, imprevedibile: Bullseye non è solo un supercriminale, è un’arma umana affilata da follia e precisione. Se il Joker della DC Comics rappresenta il caos per il caos, Bullseye è la morte con lo sguardo fisso sull’obiettivo. E, come il suo nome suggerisce, non manca mai il colpo.

Il vero nome di Bullseye è Lester, ma anche questa informazione è soggetta a dubbi. Nulla è certo nella sua biografia, e la confusione non è casuale: Bullseye è un manipolatore nato, un bugiardo per sport, e la sua identità è stata più volte offuscata dalle sue stesse narrazioni contraddittorie. La Marvel ha scelto di non offrirgli una storia d’origine canonica e definitiva, un vuoto che non solo alimenta il mistero, ma sottolinea la natura proteiforme del personaggio: Bullseye è ciò che serve al male, in qualunque forma si presenti.

Nonostante l’oscurità del suo passato, è chiaro che Bullseye abbia intrapreso la via del crimine molto presto, diventando un sicario professionista con un talento straordinario: riesce a trasformare qualunque oggetto – da una matita a una graffetta – in un’arma mortale, grazie a una mira sovrumana e a riflessi ai limiti dell’umano. In breve tempo, è diventato il più ricercato mercenario degli Stati Uniti, finendo inevitabilmente nel radar dell’Uomo senza paura: Daredevil.

Il conflitto tra Daredevil e Bullseye non è solo una rivalità fumettistica, ma una delle più intense e cariche di tensione morale nell’intero panorama Marvel. Se Kingpin è il burattinaio dell’ombra, Bullseye è la lama che colpisce. E a differenza di molti altri villain, non ha un codice d’onore, né un trauma redentivo: Bullseye uccide perché lo trova stimolante, divertente, appagante.

Il loro scontro più tragico resta la morte di Elektra. In uno dei momenti più drammatici della saga di Daredevil, Bullseye trafigge l’assassina redenta con il suo stesso sai, lasciandola morire tra le braccia di Matt Murdock. Una scena che ha segnato un’epoca nei fumetti americani e che ha fissato Bullseye come l’incarnazione del lutto di Daredevil.

Durante l’arco narrativo Shadowland, Daredevil, posseduto da un antico spirito demoniaco, assume il controllo della Mano – l’organizzazione di ninja assassini – e si trasforma in un giustiziere spietato. In questo contesto, il confronto con Bullseye raggiunge un apice catartico e terribile. Quando il killer deride Murdock, provocandolo con l’arroganza di sempre, Daredevil risponde con ferocia: lo uccide nello stesso modo in cui Bullseye aveva assassinato Elektra. Un gesto di giustizia o vendetta? La linea si sfuma nel sangue.

È una delle poche volte in cui Bullseye conosce il terrore. E quella scena, per molti lettori, è una rivalsa emotiva difficile da dimenticare.

Ma nel mondo dei fumetti, la morte è spesso una porta girevole. Nel terzo volume di Daredevil, Lady Bullseye – un personaggio inquietante ispirato dallo stesso Lester – riesce a riportarlo in vita. Tuttavia, al suo ritorno, Bullseye si ritrova paralizzato, relegato a un ruolo marginale, un mostro imprigionato nel proprio corpo. La Mano, però, non tarda a restituirgli la mobilità, e con essa la possibilità di tornare a spargere morte.

Il nuovo Bullseye è ancora più inquietante. Se prima era solo malvagio, ora è rinato con una lucidità gelida, quasi disumana. La sua ricomparsa nel sesto volume di Daredevil, numero 35, segna un altro scontro brutale con Matt Murdock, che questa volta lo riduce in fin di vita. Ma sarà Elektra, ora portatrice del mantello di Daredevil, a fermare l’esecuzione: perché perfino un mostro merita un limite alla violenza.

Oggi Bullseye resta una figura chiave nel bestiario Marvel, un archetipo del male fine a se stesso. Non ha bisogno di un movente, non ha un piano di conquista, non cerca redenzione. La sua pericolosità sta nella semplicità del suo scopo: colpire, uccidere, e godere nel farlo.

Ma è proprio questa mancanza di morale, questo nichilismo da killer su commissione, a renderlo così disturbante. In un’epoca di anti-eroi complessi e villain tragici, Bullseye rimane una figura anomala, quasi archetipica: il male che non si può redimere, solo fermare. È una presenza che costringe gli eroi a interrogarsi sui limiti della giustizia, sulla vendetta e sul senso stesso della battaglia tra bene e male.

Bullseye non è un personaggio simpatico. Non è carismatico nel senso classico, né gode del fascino ambivalente di altri criminali Marvel. Ma proprio per questo affascina: perché è spaventoso. Perché è autentico. Perché rappresenta il lato oscuro senza maschere. Chi legge i suoi archi narrativi è messo di fronte a una realtà scomoda: non sempre il male ha una causa, non sempre si può spiegare. A volte, il male è semplicemente bravo a mirare.

E in questo, Lester – alias Bullseye – non ha mai mancato un colpo.



venerdì 18 aprile 2025

Iceman: L'arma congelante definitiva della Marvel – perché Bobby Drake è un mutante Omega

 

Per decenni, è stato il burlone del gruppo, lo studente svogliato della Scuola di Xavier per Giovani Dotati, la spalla comica tra i più iconici X-Men. Ma dietro il nome bonario e le battute a effetto, Iceman cela un potere che, se compreso appieno, ha ben poco di leggero. Oggi, un'analisi accurata dei suoi poteri spiega perché Bobby Drake sia non solo uno dei mutanti più sottovalutati della Marvel, ma anche un indiscutibile Omega Level Mutant — il rango più alto tra i mutanti, riservato a coloro il cui potenziale è virtualmente illimitato.

A dispetto del soprannome da supereroe che evoca tempeste di neve e giochi di ghiaccio, Iceman non produce realmente il ghiaccio. La sua capacità principale consiste nel sottrarre calore dalla materia circostante con una rapidità tale da portarla a temperature prossime allo zero assoluto. Ed è proprio in questo dettaglio, quasi tecnico, che risiede la chiave del suo immenso potere: non crea freddo, cancella il calore. Un atto che, in termini fisici, equivale a manipolare l’energia cinetica delle molecole e arrestarne quasi completamente il movimento.

Per intenderci, lo zero assoluto è il punto teorico in cui ogni attività molecolare si ferma: -273,15 °C, o -459,67 °F. Non si tratta di un raffreddamento convenzionale, ma di una vera e propria sospensione dell’energia termica. Iceman può farlo in pochi decimi di secondo. L’umidità dell’aria, i tessuti umani, il metallo, il magma, persino una reazione nucleare: nulla è immune alla sua capacità di dissipare calore.

In effetti, uno degli episodi più emblematici della sua carriera lo ha visto fermare un’esplosione da fusione nucleare, un evento che replica, in scala ridotta, i processi che alimentano il nostro Sole. Si parla di temperature vicine ai 100 milioni di gradi Celsius, un’intensità energetica inimmaginabile per qualsiasi essere vivente — ma non per Bobby Drake. In quell’occasione, ha annichilito una delle forze più distruttive dell’universo fisico con una precisione che ha del miracoloso.

Sebbene la scienza dei fumetti sia, per necessità, elastica, la fisica reale non mente: la sottrazione istantanea di calore a quel livello ha implicazioni devastanti. Significa poter fermare processi vitali, paralizzare ecosistemi, o addirittura alterare gli equilibri climatici di intere regioni. Ogni essere vivente, ogni fenomeno naturale, ogni macchina che opera con calore — che sia un motore a combustione o il cuore umano — è vulnerabile a una manipolazione così radicale dell’energia termica.

Perché allora non lo vediamo agire da semidio nella mitologia Marvel? Perché, fino a tempi recenti, Bobby Drake è stato ritratto come un adolescente irrequieto, più interessato al divertimento che alla responsabilità. Il suo personaggio ha attraversato decenni di narrazione come una presenza di supporto, mai al centro dell’azione. Solo nelle ultime saghe, grazie a una nuova generazione di scrittori, si è cominciato a esplorare davvero la profondità e la pericolosità dei suoi poteri.

A frenarlo, tuttavia, non è solo la narrativa editoriale: è la sua coscienza. La formazione ricevuta alla Scuola di Xavier, fondata su principi di controllo e responsabilità, ha instillato in lui una disciplina che impedisce derive catastrofiche. Ma basta uno sguardo al profilo termico dei suoi poteri per comprendere quanto sottile sia il confine tra eroe e minaccia esistenziale.

Nel contesto dei confronti ipotetici tra personaggi — gli ormai celebri "Who Would Win?" — Iceman è spesso ignorato in favore di mutanti più appariscenti o brutali. Ma in una simulazione realistica, persino il rigenerante Wolverine sarebbe ridotto a un cristallo frantumabile prima di poter fare un passo. I 37 °C del suo corpo impallidiscono di fronte a una capacità di congelamento in grado di fermare il cuore del Sole.

Ecco perché il termine “Omega” non è solo una classificazione arbitraria. Significa che il potenziale del mutante in questione non ha limiti teorici definitivi. Iceman non è solo in grado di congelare oggetti o ambienti: può sospendere le leggi fondamentali del moto molecolare e, con esse, ogni forma di vita. Un potere del genere non si misura con il carisma o la posizione in prima fila sulle copertine, ma con la consapevolezza che, se un giorno decidesse di non contenersi più, nessuno potrebbe fermarlo.

Sotto il ghiaccio, insomma, c'è un vulcano congelato, pronto ad eruttare. E forse è proprio questa consapevolezza, più della sua disciplina o della sua morale, a renderlo ancora più affascinante. Un dio dormiente, con un cuore umano.

Bobby Drake è la dimostrazione vivente che il freddo non è assenza di vita, ma il suo controllo. Un controllo che, in mani meno educate, potrebbe riscrivere le leggi della natura — e segnare la fine di tutto.


giovedì 17 aprile 2025

Quando Krypton incontra Oa: i kryptoniani e l’eredità del Corpo delle Lanterne Verdi

Nel vasto universo narrativo della DC Comics, dove costellazioni, volontà e lignaggi cosmici si intrecciano, poche alleanze risuonano con il fascino mitologico di quella tra i kryptoniani (e i loro cugini Daxamiti) e il Corpo delle Lanterne Verdi. Un’unione che unisce la volontà incrollabile al potere solare, dando vita a eroi capaci di cambiare l’equilibrio dell’intero cosmo.

Uno dei nomi più emblematici di questa convergenza è Sodam Yat, un Daxamita, ovvero un discendente di coloni kryptoniani che si sono evoluti su un pianeta diverso, diventando potenzialmente anche più potenti dei loro progenitori. Come i kryptoniani, i Daxamiti assorbono l’energia di una stella gialla e sviluppano capacità sovrumane. Ma a differenza di Superman, la loro debolezza non è la kryptonite, bensì il piombo: un’esposizione anche minima può risultare fatale.

Sodam Yat fu reclutato nel Corpo delle Lanterne Verdi durante uno dei periodi più tumultuosi dell’universo DC: la Guerra del Sinestro Corps, un conflitto che minacciava l’intero tessuto dell’ordine galattico. Nel pieno della battaglia, Yat fu scelto come nuovo ospite per Ion, l’entità cosmica della volontà che aveva precedentemente abitato Kyle Rayner. Fu un’investitura drammatica: ai suoi poteri daxamiti si aggiunse l’incommensurabile forza di Ion, trasformandolo in un essere virtualmente onnipotente.

Il suo compito: affrontare Superboy Prime, forse l’antagonista più devastante che l’universo DC avesse mai conosciuto fino a quel momento. L’incontro tra Yat e Prime è uno dei più memorabili per i lettori del ciclo di Geoff Johns: un duello che fonde mitologia moderna e brutalismo cosmico, dove due esseri dalla forza incalcolabile si scontrano tra le rovine di mondi e ideologie.

Ma la gloria ha un prezzo. Durante lo scontro, Yat cade in una trappola: una stanza piena di piombo, letale per i Daxamiti. Solo l’intervento del potere dell’anello lo salva, mantenendolo in vita e consentendogli di fuggire e continuare il combattimento. È un momento che sintetizza alla perfezione la tensione narrativa tra vulnerabilità e volontà, tra la debolezza fisica e l’incrollabilità dello spirito.

Negli anni successivi, il destino di Sodam Yat resta avvolto nell’incertezza. Alcune narrazioni lo dipingono come una figura leggendaria e solitaria: in Final Crisis: Legion of Three Worlds, ambientata nel futuro remoto dell’universo DC, viene presentato come l’ultima Lanterna Verde sopravvissuta. Isolato, resiste ancora, in eterno conflitto con Superboy Prime, in un duello ciclico che sembra incarnare la stessa dialettica tra ordine e caos.

Ma Sodam non è l’unico esempio di connessione tra kryptoniani e le Lanterne Verdi.

In realtà alternative, questa fusione prende forma in modi sorprendenti. In Superman: Last Son of Earth — un Elseworld firmato da Steve Gerber — Kal-El viene salvato da Jonathan Kent e cresciuto sulla Terra, ma con un’inversione radicale: è la Terra a esplodere, e Kal finisce su Krypton. Da adulto, riceve un anello del Corpo delle Lanterne Verdi, e diventa non solo Superman, ma una Lanterna Verde. Una fusione perfetta tra due archetipi eroici: la forza fisica e la volontà illuminata.

Non è finita. Nella monumentale DC One Million, ambientata nel 853° secolo, vediamo un Superman Prime — la versione evoluta e semi-divina di Kal-El — tornare dopo secoli di esilio nel sole, dotato anche di un anello delle Lanterne Verdi come parte del suo arsenale cosmico. È l’apoteosi del supereroe, un essere che incarna la saggezza del tempo, la luce della volontà e il fuoco del sole.

La ricorrenza con cui DC torna a esplorare l’incrocio tra kryptoniani e Lanterne Verdi non è casuale. È la convergenza di due concetti profondamente americani ed eternamente umani: l’idea di un destino superiore (Superman) e quella del merito conquistato con la forza d’animo (Lanterna Verde). Uno è “nato per salvare”, l’altro “scelto perché degno”. Quando questi due percorsi si fondono, il risultato è un’energia narrativa potentissima.

Ma se i kryptoniani sono spesso sinonimo di potere incondizionato, la Lanterna Verde rappresenta la responsabilità morale, il dovere di usare quel potere per il bene, solo finché si dimostra degni. Il Daxamita Sodam Yat, con la sua debolezza letale e il suo spirito incrollabile, rappresenta perfettamente questo dualismo.

Nel multiverso DC, potenza e volontà si cercano costantemente. E quando si incontrano, si accende la luce verde anche nei cuori più solari.








mercoledì 16 aprile 2025

Dottor Destino: l’archetipo della supremazia tragica che affascina la Marvel e i suoi fan

Nell’universo Marvel, dove la linea tra l’eroismo e la tirannia si dissolve spesso tra le pieghe del potere e della volontà, pochi personaggi incarnano il fascino del cattivo con la stessa profondità e complessità di Victor Von Doom. Sovrano della Latveria, scienziato geniale, stregone di rara abilità, ma soprattutto ego titanico con una visione incrollabile della propria infallibilità. Il Dottor Destino – come si fa chiamare – non è solo un antagonista: è una figura tragica, un Prometeo moderno che ha osato troppo e non ha mai smesso di bruciare.

Ma perché Doom continua ad affascinare generazioni di lettori, al punto da essere considerato non solo uno dei migliori villain della Marvel, ma uno dei personaggi più stratificati dell’intero fumetto occidentale?

La risposta giace nella sua onnicompetenza e nel suo paradosso.

Doom è, senza dubbio, tra gli uomini più potenti della Terra. Non per caso o dono celeste, ma per volontà inflessibile. Ha vagato per il mondo alla ricerca del sapere, scalato le vette della scienza fino a superare Einstein e Richards, padroneggiato la magia fino a rivaleggiare con gli stregoni supremi, conquistato una nazione e governato con pugno di ferro, ma anche con ordine e visione. Nella sua figura si fondono razionalità e misticismo, logica e fede, acciaio e fuoco.

È il sogno lucido di un tiranno illuminato: un uomo che non si limita a desiderare il potere, ma si convince che il mondo abbia bisogno che lui lo eserciti. E quando combatte contro eroi, dèi o creature cosmiche, lo fa non solo per vincere, ma per dimostrare che ha sempre avuto ragione.

Questo è il cuore della sua tragedia: non è un semplice megalomane. È un uomo che crede, con ardore fanatico, che il mondo migliorerebbe sotto il suo dominio. E in alcune delle sue versioni più riuscite, come quella proposta nella Secret Wars del 2015, ha avuto persino modo di dimostrarlo.

In quel racconto, tra i più acclamati del decennio, il multiverso Marvel collassa. Le realtà si annichiliscono sotto il peso degli eventi cosmici orchestrati dai Beyonders, e tutto ciò che rimane è ciò che Destino decide di salvare. Rubando il potere divino con un gesto di hybris estrema, crea Battleworld, una nuova realtà composta da frammenti dei mondi perduti, governata con pugno saldo e mente lucida.

Doom diventa Dio. Letteralmente. E nel farlo, dimostra di saper mantenere ordine e stabilità laddove persino le forze cosmiche avevano fallito. Nonostante ciò, ciò che lo ferisce – e lo minaccia – non è la ribellione armata, non la fine del potere, ma la memoria di un uomo: Reed Richards.

È qui che il personaggio di Destino rivela tutta la sua fragilità umana. Nonostante diventi il creatore e dominatore di un nuovo mondo, non riesce a scrollarsi di dosso l’ossessione per colui che considera il proprio eterno rivale. Non è l’odio puro a guidarlo, ma il rifiuto dell’errore, il trauma di una caduta vissuta come ingiustizia: quell’esperimento fallito ai tempi del college, quella cicatrice – fisica e metaforica – che gli ha segnato il volto e l’anima.

Doom non perdona. E non perdona sé stesso.

Il suo rapporto con Reed Richards non è solo una rivalità tra geni. È la manifestazione del suo bisogno disperato di validazione. L’intero percorso di Destino, dai suoi studi ossessivi fino al governo della Latveria, è un tentativo patologico di dimostrare che nessuno può correggerlo, che nessuno è superiore. Eppure, ogni volta che si specchia nella figura di Reed, vede il fantasma del proprio fallimento.

Persino in Secret Wars, quando adotta Valeria Richards – la figlia di Reed – come sua consigliera, lo fa non per amore, ma per ricreare un’illusione di superiorità morale e familiare. Costruisce una parodia perfetta della famiglia del suo rivale, nel tentativo di dimostrare che lui, Victor, può fare tutto meglio. Non si tratta più di dominio, ma di rivalsa.

Questo lo rende straordinariamente umano. Destino è, in fondo, l’incarnazione della sindrome dell’impostore che non riconosce i propri limiti. La sua perfezione, costruita con dedizione maniacale, è anche la sua condanna. Per quanto governi una nazione, per quanto affronti Thanos e lo distrugga a mani nude, per quanto possa ridicolizzare le Gemme dell’Infinito, resta schiavo della sua stessa insicurezza.

E se in questo ha il tratto comune dell’arroganza tipica dei villain, in lui essa prende la forma più sofisticata e tragica: l’arroganza dell’uomo che si crede Dio, e che tuttavia non può smettere di provare a convincersene.

È per questo che i fan della Marvel continuano ad amarlo. Perché Doom non è solo potente: è coerente, sfaccettato, radicalmente umano nei suoi difetti. È un personaggio che sfida non solo gli eroi, ma anche il lettore, costringendolo a confrontarsi con domande scomode. Un mondo governato da Doom sarebbe davvero peggiore? È giusto opporsi a chi porta ordine, se lo fa con pugno di ferro ma mente illuminata? E se l’unico difetto dell’uomo perfetto fosse il bisogno disperato di dimostrare che lo è?

In un panorama spesso polarizzato tra buoni e cattivi, Doom è l’eccezione che conferma la regola. Un villain che incarna il sublime e il miserabile dell’animo umano. Ed è proprio questo che lo rende immortale.

In un universo in cui persino gli dèi tremano, Victor Von Doom resta uno dei pochi in grado di guardarli negli occhi e dire: “Io sono il destino”.


lunedì 14 aprile 2025

Battle Beast: l'antieroe di Invincible che potrebbe scuotere l'Universo Marvel

Nel vasto e variegato cosmo narrativo della Marvel, i personaggi che lasciano il segno sono spesso quelli in grado di infrangere le convenzioni, sovvertire le aspettative e introdurre nuove tensioni in un mondo già colmo di leggende. In questo senso, Battle Beast – o Thokk, come viene chiamato nel suo universo nativo, quello di Invincible – rappresenta un'interessante anomalia. Non è un eroe. Non è un villain. È una forza della natura, un motore di distruzione in cerca costante di un’unica cosa: una battaglia degna.

La sua trasposizione nell’Universo Marvel non soltanto sarebbe plausibile, ma offrirebbe numerosi spunti narrativi, soprattutto se considerata da un punto di vista tematico e di scontro fisico. Il suo ruolo? Quello del catalizzatore. L’elemento imprevedibile che può trasformare una narrazione lineare in un vortice di caos, testando i limiti – fisici e morali – di qualunque personaggio gli si pari davanti.

Thokk non combatte per il male. Non per vendetta. Né per un fine superiore. Combatte per combattere. In un universo come quello Marvel, pieno di giustizieri, mutanti, alieni, divinità e multiversi, Battle Beast si innesterebbe come una minaccia occasionale ma devastante. È il tipo di personaggio che, come Wolverine o Punisher in certi contesti, esiste al di fuori delle etichette morali. Non vuole distruggere il mondo, non vuole conquistarlo. Ma se lo metti di fronte a un essere che ritiene "degno", combatterà fino alla morte. Anche la sua.

Per questo motivo, non sarebbe il classico "cattivo della settimana", né l'ennesimo supercriminale da sconfiggere con astuzia e collaborazione. Battle Beast è un problema etico, oltre che fisico. Un enigma da risolvere per chi crede nei limiti, nel contenimento, nella redenzione. E questo lo renderebbe perfetto per scontri contro determinati eroi.

Gli eroi con cui si scontrerebbe? Hulk e Ercole, senza dubbio.

La prima risposta è ovvia: Hulk.

Non solo per l'assonanza tra la furia di Bruce Banner e la brama di battaglia di Thokk, ma per la filosofia del confronto. Battle Beast cerca il più forte. Hulk è il più forte – almeno secondo lo slogan più famoso dell'universo Marvel. Il combattimento tra questi due sarebbe più che uno scontro fisico: sarebbe un momento di pura distruzione, quasi catartico, dove la rabbia e la gloria si fondono in un corpo a corpo da montagne che tremano.

La seconda scelta naturale è Ercole, l’Olimpico.

Se Hulk rappresenta la forza primordiale, Ercole è la forza celebrata, l’eroismo mitologico reso carne. Ercole non si tira mai indietro di fronte a una sfida e, proprio come Thokk, vanta una lunga lista di battaglie epiche. La loro lotta sarebbe più teatrale, quasi una danza bellica fra titani, con la spavalderia del figlio di Zeus a fare da contraltare alla serietà brutale di Battle Beast.

Se allarghiamo lo sguardo, Thokk potrebbe interagire – e scontrarsi – con molti altri personaggi Marvel:

  • Thor, per esempio, sarebbe un degno rivale, sia per potenza che per etica. Ma a differenza di Hulk ed Ercole, Thor riflette prima di colpire. E ciò creerebbe uno scontro tra impulso e giudizio.

  • Sentry, per quanto superiore in potenza, rappresenta il tipo di avversario che Thokk cercherebbe senza esitazione. Uno scontro forse sbilanciato, ma narrativamente affascinante, tra un uomo con un potere da dio e un guerriero con l’ossessione del duello.

  • Black Panther o Captain America, pur non essendo alla pari in termini di forza bruta, potrebbero essere coinvolti in battaglie in cui l’intelligenza tattica e il carisma si scontrano con l’ineluttabilità di Thokk. Il contrasto tra mente e muscoli sarebbe un tema ricorrente e ricco di tensione.

Battle Beast funzionerebbe al meglio come presenza saltuaria, ma devastante. Un guest villain con una morale a sé stante, pronto a irrompere nei momenti meno opportuni per sfidare gli eroi più forti. Potrebbe essere usato per testare la maturità di un personaggio o per esplorare i limiti della violenza giustificata. Una run di Avengers o Defenders in cui Thokk interrompe una missione critica solo per mettere alla prova Iron Man, Hulk o Namor potrebbe diventare un arco narrativo memorabile.

Ancor meglio sarebbe una miniserie a sé, una sorta di Marvel vs. Battle Beast, dove ogni numero racconta uno scontro con un eroe diverso, permettendo ai lettori di esplorare non solo le dinamiche del combattimento, ma le diverse reazioni etiche dei personaggi all’assurda ma coerente filosofia di Thokk.

Battle Beast sarebbe un'aggiunta singolare, affascinante e pericolosamente coerente all'Universo Marvel. Non perché è più forte, più carismatico o più complesso di altri, ma perché introduce una regola tutta sua in un mondo dove le regole sono già tante.

Non ha bisogno di motivazioni elaborate. Non ha bisogno di alleanze. Non cerca redenzione, né approvazione. Cerca solo un avversario degno. E nel farlo, costringe chi gli si oppone a chiedersi: sono davvero il più forte? E a quale prezzo lo dimostro?

Nel regno degli dèi, dei mutanti e degli uomini straordinari, Battle Beast sarebbe un perfetto disgregatore narrativo. Non un villain da fermare. Un avversario da sopportare. Fino alla prossima battaglia.







domenica 13 aprile 2025

Simon William Garth, lo Zombie: il cuore che batte oltre la morte

 

“La morte è solo l’inizio.” — una massima che si adatta perfettamente a Simon Garth, il morto vivente più tormentato dell’universo Marvel.

Nel vasto e variegato pantheon dei personaggi a fumetti, pochi riescono a incarnare il dolore della trasformazione e la maledizione dell’immortalità come Simon William Garth, meglio noto come lo Zombie. Approdato per la prima volta nel 1953 sulle pagine di Menace #5 della Atlas Comics (precursore della Marvel), per poi rinascere nel 1973 grazie a Steve Gerber e Pablo Marcos nella collana Tales of the Zombie, questo inquietante antieroe ha attraversato decenni di evoluzioni stilistiche e narrative, rimanendo un punto di riferimento nell’horror a fumetti.

Perché Simon Garth è ancora oggi un personaggio rilevante? Non solo per il suo aspetto spettrale o per la sua appartenenza a un sottogenere affascinante come l’horror gotico, ma perché incarna la tragedia della coscienza rinchiusa in un corpo che non risponde più alla volontà, simbolo estremo di una lotta interiore che non conosce tregua.

La genesi di Simon Garth è radicata in un’atmosfera noir e pulp. Imprenditore di successo, Garth viene rapito da un ex dipendente assetato di vendetta e offerto come sacrificio in un rituale vudù. Il rito ha successo a metà: Garth muore, ma torna alla vita sotto forma di zombie, costretto a obbedire a chiunque possieda l’Amuleto del Damballah.

La sua prima incarnazione negli anni Cinquanta era più un mostro da rivista d'orrore, sfruttato per brevi storie autoconclusive. Ma è con la rinascita negli anni Settanta, periodo d’oro per l’horror Marvel grazie alla sospensione temporanea del Comics Code Authority, che lo Zombie prende corpo come figura tragica e riflessiva. In Tales of the Zombie, Gerber esplora le sfumature psicologiche del personaggio: Simon conserva la coscienza, la memoria, il rimorso — ma non più il controllo sul suo stesso corpo.

Nel corso degli anni, Simon Garth è apparso sporadicamente in miniserie e camei, ogni volta riproponendo il dilemma esistenziale di un’anima prigioniera in una carne morta. Una creatura né viva né del tutto morta, ma pienamente consapevole del proprio stato: una condizione che amplifica il suo dolore e lo distingue da altri “non-morti” più convenzionali.

Lo Zombie non è un mostro privo di emozioni. Al contrario: Simon Garth è un’anima lacerata, piena di ricordi, affetti, rimorsi. Ciò che lo rende unico è la coesistenza tra l’orrore fisico del cadavere ambulante e l’umanità intatta della sua psiche. È vittima e carnefice, spettatore e protagonista della propria tragedia.

Il conflitto centrale del personaggio è tra volontà e schiavitù. L’Amuleto del Damballah lo rende un burattino nelle mani di altri, eppure la sua coscienza cerca di resistere, di preservare la dignità, di fare del bene quando possibile. È questa tensione morale a renderlo affascinante: Simon è un anti-eroe tragico, un Ulisse dannato che cerca redenzione nella dannazione.

Dal punto di vista tematico, lo Zombie affronta i grandi interrogativi della letteratura horror: la perdita dell’identità, il senso della giustizia in un mondo dominato dal soprannaturale, la fragilità dell’umano di fronte alla morte. Il suo viaggio non è quello di un vendicatore, bensì di un uomo che cerca pace, risposte, e talvolta la possibilità di amare ancora.

Sebbene Simon Garth non abbia raggiunto la celebrità mainstream di altri personaggi Marvel, ha comunque esercitato una significativa influenza nel panorama dell’horror a fumetti. La serie Tales of the Zombie, pubblicata nel prestigioso formato magazine in bianco e nero, ha rappresentato una svolta nel trattamento maturo di tematiche horror nel mondo delle nuvole parlanti.

La qualità narrativa delle storie di Gerber, unite allo stile cupo e dettagliato di Pablo Marcos, hanno reso il personaggio un cult tra gli appassionati. Inoltre, ha aperto la strada a future esplorazioni “adulte” dell’horror Marvel, contribuendo alla nascita di testate come Werewolf by Night e Man-Thing.

Negli anni Duemila, Simon Garth è stato oggetto di un rilancio con miniserie a lui dedicate, come Zombie: Simon Garth del 2006 e il suo ritorno nel crossover Marvel Zombies, confermando l’interesse per il personaggio anche in epoche successive.

Tra le curiosità più note, vale la pena ricordare che Tales of the Zombie #10, l’ultimo della serie, è uno dei pochi albi Marvel dell’epoca con una conclusione davvero tragica e filosofica, considerata da molti una perla dimenticata del fumetto horror statunitense.

Simon Garth non è un supereroe, né possiede un arsenale da combattimento. Tuttavia, come zombie vudù, è dotato di una forza fisica sovrumana, una resistenza al dolore assoluta e l’incapacità di essere ucciso con mezzi convenzionali. Il suo principale punto debole è l’obbedienza forzata a chi controlla l’Amuleto del Damballah.

Questa vulnerabilità lo rende affascinante: nonostante la sua forza, Simon è costantemente in balia degli altri, e ciò rende ancora più struggente ogni sua scelta altruista o gesto di ribellione.

Visivamente, lo Zombie ha subito diverse interpretazioni, pur mantenendo alcuni tratti distintivi: abiti strappati, pelle cadaverica, occhi profondi e malinconici. Nel tempo, il tratto è passato dal realismo illustrativo degli anni Settanta a una versione più moderna e grottesca, come nelle miniserie del XXI secolo. Tuttavia, l’elemento costante è la sua espressione sofferente: Simon Garth non fa paura per ciò che fa, ma per ciò che rappresenta.

Simon William Garth è uno di quei personaggi che sfuggono alla categorizzazione semplice. Non è un eroe, non è un mostro, non è un semplice prodotto dell’immaginazione pulp. È una figura tragica, intensa, carica di simbolismo. Il suo viaggio attraverso la morte è, in fondo, il riflesso delle nostre domande più profonde: cosa resta di noi quando perdiamo il controllo? Quanto possiamo resistere alla disumanizzazione? Esiste redenzione anche per chi ha attraversato l’inferno?

Il suo battito, lento e doloroso, risuona ancora tra le pagine dei fumetti come un monito: la coscienza, anche nella morte, è una forza che non si può seppellire.

E voi, lettori: quanta umanità può celarsi in uno zombie?