venerdì 11 luglio 2025

"Supereroi d’Oltreoceano? L’Europa li ha da millenni (solo non li chiama così)"

“Perché l’Europa non ha supereroi?” È una domanda che, se posta con leggerezza, può sembrare un’innocua provocazione. Ma se presa sul serio, rivela un fraintendimento culturale più profondo: l’idea che i supereroi, per essere tali, debbano necessariamente indossare tutine in spandex, vivere a New York (mascherata da Metropolis o Gotham) e combattere il crimine con un misto di poteri paranormali e traumi irrisolti. Eppure, scavando nella memoria culturale del continente europeo, ciò che emerge è un pantheon di figure mitiche, leggendarie e letterarie che incarnano proprio gli archetipi dell’eroe sovrumano. Solo, come spesso accade da questa parte dell’Atlantico, lo fanno con meno fanfara e più stratificazione storica.

Il caso più emblematico? Ercole. O, per i più filologici, Herakles. Protagonista di imprese ciclopiche, dai mostri alle fatiche impossibili, è forse il primo esempio di “superumano” nella cultura occidentale. È stato divinizzato, immortalato nell’arte e – cosa significativa – continua a comparire nei media moderni, incluso il Marvel Cinematic Universe. Non è un caso se la stessa Hollywood, quando ha voluto un dio con il martello, ha attinto al folklore norreno per sfornare Thor, completo di mantello, muscoli e martellone. Altro che assenza di supereroi europei: sono le fondamenta stesse del concetto moderno.

Lo stesso vale per Robin Hood, genio dell’arco e maestro del travestimento. Le sue gesta, a metà tra leggenda e cronaca, risalgono almeno al XIII secolo. Ruba ai ricchi per dare ai poveri, sfida l’autorità corrotta, combatte per la giustizia: è un archetipo supereroico ante litteram. Non a caso, ispirerà figure come Occhio di Falco e Freccia Verde. E mentre la DC Comics sforna vigilanti in calzamaglia, la tradizione britannica può contare su un fuorilegge dal cuore nobile che affronta lo Sceriffo di Nottingham con arco e cervello.

E poi c’è Merlino. Magia, profezie, alleanze segrete, un apprendista re (Artù) e un’epica tavola rotonda. Se Doctor Strange ha un predecessore, non è certo uno stregone tibetano, ma il mago bretone per eccellenza. La saga arturiana – con cavalieri, spade leggendarie, profezie e mostri – ha tutti gli ingredienti della moderna narrativa supereroistica, solo declinati in chiave medievale, simbolica e profondamente europea.

Chi pensa che tutto ciò sia folklore, dimentica che anche i supereroi americani hanno radici mitologiche. Superman è un Mosè alieno cresciuto in Kansas. Batman è il Conte di Montecristo in versione noir. Hulk è l’eco furiosa del dottor Jekyll e Mr. Hyde. Il parallelismo è fin troppo evidente. Anzi, spesso le figure europee sono direttamente riciclate nelle narrazioni a stelle e strisce. Si prenda La Lega degli Straordinari Gentlemen di Alan Moore: una squadra composta da personaggi letterari europei – Mina Harker, Allan Quatermain, l’Uomo Invisibile, Jekyll/Hyde – riletti come un team di supereroi ante litteram. Basta spostarli di contesto per renderli perfettamente compatibili con i gusti moderni.

Certo, si potrebbe obiettare che l’Europa non ha una Marvel o una DC Comics. Ed è vero: l’industria del fumetto europeo ha avuto uno sviluppo differente, meno uniforme e più legato alla tradizione autoriale. Ma le eccezioni non mancano.

Judge Dredd, partorito dalle pagine della britannica 2000 AD, è un vigilante distopico di feroce attualità. Tank Girl, caotica, punk e anarchica, è figlia di una cultura fumettistica radicale. E se è vero che le loro storie sono ambientate in un futuro iperamericano o in una Australia post-apocalittica, l’imprinting europeo è innegabile.

L’assenza di supereroi europei è un mito narrativo, alimentato da un immaginario globale dominato dalle majors statunitensi. Ma scavando un po’ sotto la superficie, ci si accorge che l’Europa ha creato gli archetipi su cui si regge l’intera mitologia supereroica contemporanea. Solo che, anziché pubblicarli in serie mensili, li ha affidati ai secoli, alla letteratura, alla mitologia. E in fondo, basta un mantello (o una spada) per trasformare un eroe leggendario in un supereroe. Da noi succedeva già quando New York era ancora solo un villaggio olandese chiamato Nieuw Amsterdam.


giovedì 10 luglio 2025

Batman 1943: L’Oscura Origine del Cavaliere Mascherato al Cinema

Nel cuore degli anni Quaranta, con l’America immersa nel conflitto della Seconda guerra mondiale, fece la sua comparsa sul grande schermo il primo Batman della storia: Lewis Wilson, accompagnato da Douglas Croft nel ruolo di Robin. Era il 1943, e The Batman, serial cinematografico in 15 episodi prodotto dalla Columbia Pictures, debuttava nei cinema come intrattenimento settimanale dal forte accento patriottico. Un Batman rudimentale, meno tecnologico, ma già capace di imprimersi nell’immaginario collettivo. La domanda, per chi lo riscopre oggi, è lecita: come faceva Bruce Wayne a proteggere la sua identità segreta in un mondo privo di gadget, sorveglianza digitale o Batcomputer?

La risposta sta tutta nella semplicità narrativa dell’epoca. Niente telefono rosso, nessuna Batmobile ipertecnologica, nessun tracciamento. Il Batman del 1943 agiva nell’ombra con metodi da investigatore privato, senza il supporto della polizia, né uno schema codificato di comunicazione. La linea telefonica con il commissario Gordon — resa iconica solo decenni dopo — non esisteva ancora. Le comunicazioni erano essenziali, dirette o affidate al fedele Alfred, e l’interazione con le autorità era minima.

A differenza delle versioni successive, non c’era il bisogno di spiegare nulla al pubblico. L’identità segreta di Batman era un elemento protetto da un patto implicito tra spettatori e sceneggiatura: la maschera bastava. Nessuno, nel mondo narrativo, si chiedeva chi fosse il vigilante in costume. Nemmeno il temibile Dr. Daka, villain principale e stereotipo propagandistico dell’“invasore orientale”, cercava di smascherarlo. Batman era semplicemente Batman.

In effetti, la logica investigativa sul personaggio non esisteva. Bruce Wayne si muoveva nel suo ruolo pubblico di milionario filantropo, mentre di notte indossava il costume senza dover rendere conto a nessuno. Guidava un’auto comune, non una Batmobile blindata. Nessun quartier generale spettacolare: la Batcaverna — che pure compare in forma primitiva — non è un centro operativo, ma uno sfondo scenico. E Alfred, interpretato da William Austin, aveva un ruolo più comico che operativo, pur fungendo da unico complice e custode del segreto.

L’assenza di tecnologia di tracciamento, unita a un contesto cinematografico ancora lontano dalla serialità complessa moderna, rendeva inconcepibile una minaccia concreta all’identità segreta di Batman. Nessuna intercettazione telefonica, nessuna analisi balistica, nessun confronto tra Bruce Wayne e il Cavaliere Oscuro. La narrazione, più teatrale che realistica, non sollecitava quel tipo di attenzione. E il pubblico dell’epoca, affamato di avventura e simboli rassicuranti in tempo di guerra, non cercava coerenza logica, ma eroi in cui credere.

E così, senza bisogno di protezioni tecnologiche né spiegazioni intricate, Batman riusciva a mantenere il suo segreto. Perché lo spettatore accettava, senza riserve, che bastasse una maschera e una voce cavernosa per diventare irriconoscibile.

Un approccio datato? Sì. Ma anche un’istantanea affascinante di un’epoca in cui bastava davvero poco per far volare l’immaginazione. E in fondo, come dice la voce fuori campo nella mente di ogni nostalgico: non pensarci troppo... e sorridi.



mercoledì 9 luglio 2025

Victor Von Doom: La Forza di un Uomo Senza Potenziamenti


Senza l’uso della magia o della tecnologia, Victor Von Doom, noto come Dottor Destino, rimane comunque un individuo eccezionale, ma non sovrumano.

Fisicamente, non possiede potenziamenti biologici o superpoteri innati. Il suo corpo non è stato alterato geneticamente, non è stato sottoposto a sieri del super soldato, né a mutazioni. Non è un metaumano né un mutante. È un essere umano normale, biologicamente parlando, ma al picco assoluto delle capacità umane.

Senza armatura né incantesimi, Doom è un combattente d'élite:

  • Forza e resistenza fisica comparabili a quelle di atleti di livello olimpico, come Daredevil o Captain America (quest’ultimo potenziato, ma Doom arriva a sfiorarne le prestazioni attraverso disciplina e allenamento);

  • Esperto di arti marziali, schermidore e stratega da campo;

  • Riflessi e coordinazione ben sopra la media;

  • Addestrato nel combattimento corpo a corpo anche in ambienti ostili.

Ha miglioramenti biologici?

No, non ne ha mai avuti.
Questo è un punto cruciale del suo personaggio. Doom rifiuta l’idea di alterare biologicamente il proprio corpo, non per incapacità, ma per orgoglio e ideologia. Si considera già perfetto: la sua mente, la sua volontà e il suo intelletto sono per lui più che sufficienti per dominare ogni sfida, incluse quelle fisiche.

Doom non vuole diventare più forte modificando se stesso, perché:

  • Ritiene che la mente governi il corpo e non il contrario;

  • Considera ogni forma di potenziamento forzato una debolezza mascherata da forza;

  • Vede l'alterazione del proprio corpo come una contaminazione della sua purezza intellettuale;

  • Il suo ego assoluto lo spinge a voler vincere con la propria forza e ingegno, non per mezzo di potenziamenti esterni al suo controllo.

In sintesi

  • Doom senza potenziamenti è al limite della condizione umana: forte, agile, resistente, intelligente, disciplinato.

  • Non ha potenziamenti biologici, per scelta filosofica e ideologica.

  • Anche senza armatura o magia, può affrontare e battere combattenti altamente addestrati.

  • La sua volontà incrollabile è un’arma a sé stante: in molte storie viene descritta come la più potente sulla Terra, capace di resistere a torture, manipolazioni psichiche e persino controllo mentale.

Victor Von Doom crede che la vera superiorità non stia nel corpo, ma nella volontà di dominarlo. Ed è proprio questo che lo rende pericoloso anche quando spogliato di tutto.



lunedì 7 luglio 2025

Perché la respirazione solare è considerata la tecnica di respirazione più potente?


La respirazione solare, nota anche come il Respiro del Sole, rappresenta la radice e la forma più pura tra tutte le tecniche di respirazione esistenti. Il motivo per cui è universalmente riconosciuta come la più potente non risiede in miti o leggende, bensì nella sua struttura originaria, da cui tutte le altre tecniche derivano. Sviluppata da Yoriichi Tsugikuni, il più grande cacciatore di demoni della storia, questa tecnica fu concepita come un metodo supremo per affrontare le creature più temibili. Tuttavia, il Respiro del Sole presenta una difficoltà estrema: la sua esecuzione è pressoché impossibile per chiunque non sia dotato di un lignaggio specifico, come quello di Yoriichi stesso o dei discendenti della famiglia Kamado.

Per questo motivo, i successivi cacciatori di demoni, pur riconoscendo la sua efficacia, hanno dovuto modificare e adattare la tecnica per renderla accessibile. Nascono così le sei tecniche di respirazione principali, ciascuna modellata in base allo stile di combattimento e alle peculiarità di ogni hashira originale: Respiro della Fiamma, del Vento, del Calcolo, del Tuono, dell’Acqua e della Luna. Queste varianti, sebbene potenti, sono essenzialmente derivazioni della tecnica solare originale, ma con una notevole riduzione nella purezza e nella forza intrinseca del metodo originario.

Nel corso del tempo, ulteriori adattamenti e innovazioni hanno portato alla creazione di tecniche specializzate, come il Respiro dell’Amore, della Bestia, del Suono, del Serpente e dell’Insetto, sviluppate dai rispettivi pilastri contemporanei per adeguarsi alle loro caratteristiche uniche. È probabile che molte altre tecniche siano state ideate e poi dimenticate, utilizzate da cacciatori ormai scomparsi, suggerendo una tradizione ricca ma spesso nascosta.

Infatti, cinque delle quattordici Tecniche di Respirazione conosciute sono state create dai rispettivi specialisti:

  • Amore (Mitsuri)

  • Bestia (Inosuke)

  • Suono (Uzui)

  • Serpente (Obanai)

  • Insetto (Shinobu)

Direi che ci sono probabilmente decine, se non centinaia, di tecniche di respirazione che non vediamo mai perché il loro unico utilizzatore è qualche hashira defunto da tempo. Se quasi la metà dei pilastri moderni ha creato le proprie tecniche, di certo non sono gli unici.

L’essenza del Respiro del Sole non risiede dunque in una presunta superiorità conferita da un evento fortuito, ma nella sua qualità intrinseca di tecnica originaria, perfetta e completa. Le altre tecniche non sono altro che versioni adattate, semplificate o modificate da coloro che non possedevano la capacità di dominarla pienamente. Da questa prospettiva, la respirazione solare rimane la pietra angolare di tutte le discipline respiratorie, simbolo di una potenza senza pari che solo pochi eletti possono aspirare a padroneggiare.


“Lo Xenomorfo aveva ragione”: Quando il “mostro” è solo un sopravvissuto


In un’epoca in cui i confini tra bene e male si fanno sempre più labili, persino al cinema, non è raro imbattersi in un antagonista la cui causa – se non i mezzi – sembra avere più senso del previsto. Eppure c’è un’eccezione, un caso limite, apparentemente senza redenzione: lo Xenomorfo. Alto, nero come l’ebano spaziale, silenzioso, perfettamente letale. La personificazione del terrore alieno. Il volto (o la mandibola) della saga di Alien.

Eppure... e se lo Xenomorfo non fosse il cattivo?

Sì, parliamo proprio di lui. Quella creatura affascinante nella sua terrificante eleganza biomeccanica, concepita dalla mente di H.R. Giger e resa immortale da Ridley Scott nel capolavoro del 1979. Lo Xenomorfo non parla, non fa monologhi sul destino dell’universo, non stringe accordi con potenze occulte. Lui vive. Anzi: sopravvive. In un universo ostile, violento, in cui l’unica legge universale è la selezione naturale portata alle estreme conseguenze.

Quando arriva l’Uomo, lo Xenomorfo non invade, non conquista, non stermina per capriccio. Reagisce. Difende. Si espande come ogni specie biologicamente spinta alla sopravvivenza. Il facehugger non è crudele: è solo un mezzo, brutale quanto un virus o un parassita terrestre, ma non più ingiusto. La Regina madre non è un despota: è una genitrice. E la larva che si divincola fuori dal torace? Sì, fa schifo. Ma è il ciclo della vita... aliena.

Lo Xenomorfo non fa distinzione morale. Non odia, non giudica. Non ha ambizione di potere. Non cospira. È puro istinto, pura necessità biologica. Ed è proprio in questa “innocenza” primitiva che risiede la sua tragica condanna: essere frainteso.

Chi è il vero cattivo, dunque? Chi è che manda navi con equipaggi inconsapevoli a intercettare segnali di soccorso falsi? Chi è che cerca di catturare lo Xenomorfo vivo, ignorando la sicurezza dell’equipaggio? Chi è che considera la creatura “una risorsa da sfruttare” anziché una forma di vita autonoma da rispettare? Non serve cercare troppo lontano: il mostro veste il completo grigio dell’azienda. La Weyland-Yutani, onnipresente conglomerato interstellare, è l’emblema della cupidigia umana, cieca davanti all’etica e affamata di profitto.

La creatura non è nata per uccidere gli umani. Gli umani si sono messi sulla sua strada. Peggio: l’hanno cercata.

“Prosperare per sopravvivere”

Questa frase, che potrebbe suonare come un semplice aforisma darwiniano, è in realtà una chiave di lettura etico-filosofica. Ogni specie cerca di prosperare. L’uomo colonizza, sfrutta, conquista. L’alieno si adatta, si insedia, risponde all’ambiente. Ma se la nostra espansione è chiamata “progresso” e la sua è definita “invasione”, forse abbiamo un doppio standard morale. Il nostro sviluppo ha prodotto guerre, devastazioni, genocidi; lo Xenomorfo ha solo un ciclo vitale. È davvero più mostruoso?

La creatura è un sopravvissuto, una vittima per certi versi, manipolata, sfruttata e temuta non per ciò che fa, ma per ciò che rappresenta: la natura che non possiamo controllare. La biologia che sfugge ai laboratori. L’intelligenza non misurabile in parole, ma in istinto, adattabilità, efficienza. Un organismo perfetto, come dirà Ash, l’androide, con una sorta di rispetto reverenziale: «Privo di coscienza, di rimorsi o di illusioni di moralità.»

C’è poi un aspetto ironico: l’umanità ha sempre cercato nello Xenomorfo un’arma perfetta. Ma è proprio la sua perfezione a condannare chi tenta di domarla. Ogni film della saga lo dimostra: più l’uomo cerca di controllarlo, più viene distrutto. Come se la creatura stessa incarnasse una giustizia biologica. Una vendetta silenziosa contro l’arroganza antropocentrica.

Lo Xenomorfo, allora, non è un “cattivo” nel senso narrativo. È un monito. È ciò che accade quando l’uomo va troppo oltre. Quando il progresso si disumanizza. Quando la scienza si dimentica dell’etica.

“Questo signore alto, moro e affascinante…” — potremmo descrivere così un attore hollywoodiano. Ma anche lo Xenomorfo, con quel suo corpo slanciato, lucido, muscolare. Una forma aliena, certo, ma ipnoticamente bella nella sua struttura letale. L’alieno, da sempre, rappresenta l’Altro, ciò che non siamo e temiamo. Ma anche ciò che, in fondo, vorremmo essere: liberi da regole, da compromessi, da ipocrisie.

Lo Xenomorfo è il simbolo dell’inevitabile. Della natura che si riprende la scena. Della vita che, anche nella forma più distante da noi, reclama lo stesso diritto: esistere. Non per distruggere, ma per essere.

Forse è tempo di smettere di dividere il mondo in buoni e cattivi. Forse lo Xenomorfo è solo lo specchio nero e lucido in cui riflettiamo le nostre paure più intime: il fallimento della ragione, l’inefficacia della tecnologia, l’inutilità del controllo. E allora sì, possiamo vedere in quella creatura terrificante... un fratello lontano. Un sopravvissuto come noi, in lotta contro un universo che non perdona la debolezza.

Il cinema ce lo ha mostrato come un incubo. Ma a ben guardare, è anche una lezione. Una creatura che, nel suo silenzio assordante, ci urla: “Non sono io il mostro. Lo divento solo quando mi costringi a esserlo.”

Prosperare per sopravvivere. Pace.



sabato 5 luglio 2025

“Letali per Design: Le Strategie Uniche dei Templi dell’Officio Assassinorum”

 L’Officio Assassinorum è l'arma più precisa e spietata dell’Imperium quando la guerra aperta non basta o è semplicemente inopportuna. I suoi templi non sono semplicemente addestramenti diversi per lo stesso fine: ciascuno rappresenta una filosofia di morte, una forma d’arte letale riflessa nel corpo, nella mente e nella tecnica dell’assassino. Le strategie che ogni tempio impiega non sono arbitrarie, ma calibrate per massimizzare l’efficienza nel contesto in cui operano, riflettendo il loro ruolo specifico all’interno del grande macchinario imperiale.

Tempio Eversor – L’annientamento totale come metodo

La dottrina Eversor non contempla la sottigliezza. L’assassino di questo tempio è un’arma di distruzione di massa a forma umana, il cui principio operativo è: nessun testimone, nessuna sopravvivenza, nessuna pietà. La loro specializzazione riflette la necessità dell’Imperium di eliminare intere strutture nemiche — non solo la testa, ma anche le braccia, le gambe e qualsiasi altra parte che possa rigenerarsi o reagire.

Il metodo Eversor è quello dell’attacco frontale potenziato da farmaci da combattimento, riflessi innaturali e una brutalità animalesca. Ogni loro missione è un'esplosione di violenza: caricano come un predatore sotto anfetamine, usando armi da fuoco pesanti, granate, tossine neuro-corrosive e artigli letali. L’obiettivo non è solo uccidere, ma inviare un messaggio: non si sfida l’Imperium impunemente. Se il bersaglio è un culto, una cellula eversiva, o un intero consiglio planetario di traditori, l’Eversor entra… e nulla esce.

Il suo stesso corpo è una bomba a orologeria: alla morte, esplode, garantendo che chiunque sia sopravvissuto non possa raccontarlo. È l’assassino del caos sistemico, del collasso totale.

Tempio Culexus – Il nulla che divora la mente

Laddove l’Eversor è fuoco e rabbia, il Culexus è silenzio e terrore. È l’arma che l’Imperium brandisce contro una minaccia diversa: gli psionici. Perché gli psichici — che siano stregoni del Caos, veggenti Eldar, o anche mutanti imperiali ribelli — rappresentano una frattura tra realtà e immaterium, e nulla li minaccia più del vuoto.

Gli assassini Culexus sono esseri nati senza anima: paria assoluti. La loro sola presenza è un incubo per chiunque sia sensibile al Warp. Gli psionici li percepiscono come buchi nella realtà, vuoti di senso che prosciugano energia, speranza e identità. La loro arma distintiva, l’Animus Speculum, canalizza questa assenza cosmica in un raggio letale che devasta la mente.

La strategia Culexus è chirurgica: infiltrarsi nelle linee nemiche, localizzare l’entità psichica centrale, e neutralizzarla senza pietà. Sono immuni alle arti psioniche e agiscono come strumenti di negazione assoluta. Se il bersaglio è una bestia del Warp, uno stregone demoniaco o un inquisitore caduto, un Culexus è il vaccino letale contro la peste del disordine psichico.

Tempio Callidus – Il volto della morte

Il Callidus è il tempio della trasformazione, del tradimento e del colpo letale inferto quando la vittima si sente più al sicuro. L’arma del Callidus è l’inganno incarnato: la Polimorfina, una sostanza che permette al corpo dell’assassino di mutare aspetto, voce, struttura ossea e sesso.

La strategia è subdola e richiede una paziente infiltrazione. Un Callidus può sostituirsi a una servitrice, un assistente, un consigliere, persino a un membro della famiglia della vittima. Il colpo non arriva mai in battaglia: arriva mentre il bersaglio dorme, firma un decreto, o sorseggia un vino.

La Spada Fasica C'tan, capace di penetrare qualsiasi armatura, garantisce che nessun tipo di protezione sia sufficiente. Il Callidus è l'assassino dei tiranni, dei traditori che si nascondono dietro mille scudi umani, dei manipolatori che operano nell’ombra. E l’assassino li raggiunge, sempre.

Tempio Vindicare – Una pallottola, un futuro riscritto

Se il Callidus è il pugnale alla gola, il Vindicare è il proiettile che cambia il corso della guerra. Addestrato fin dall’infanzia alla disciplina assoluta, alla respirazione rallentata e alla visione a lungo termine, il Vindicare è l’essenza del controllo.

La sua arma, il fucile Exitus, non è solo un mezzo per uccidere: è un atto di volontà. Ogni colpo può essere calibrato per perforare armature di terminator, campi di forza, o scudi olografici. Il colpo viene sparato da chilometri di distanza, spesso dopo giorni di attesa silenziosa. E quando il bersaglio cade, l’intero fronte può collassare.

I bersagli del Vindicare sono comandanti carismatici, condottieri mutanti, campioni demoniaci: figure la cui morte getta nel caos le forze nemiche. Eliminandoli, il Vindicare non solo uccide una persona, ma altera l’intera traiettoria di una campagna militare.

Templi Minori – Specializzazione estrema e supporto tattico

L’Officio Assassinorum non è composto solo dai quattro templi principali. Esistono ordini minori, meno noti ma altrettanto letali:

  • Adamus: Maestri del combattimento corpo a corpo. Perfetti per missioni in ambienti ristretti o protetti, dove la rapidità del contatto fisico è essenziale.

  • Venenum: Specializzati in veleni. I loro omicidi sono lenti, subdoli, apparentemente naturali. Ideali per eliminare figure pubbliche senza creare martiri.

  • Vanus: Agenti dell’informazione e della manipolazione. Uccidono orchestrando incidenti, sabotaggi e collassi sistemici. Sono la scelta preferita quando un’intera infrastruttura deve sparire con discrezione.

  • Maerorus (defunto): Utilizzava armi biologiche e xeno-tecnologia. Dissolto per eresia, resta un monito sull’uso incontrollato di conoscenze proibite.

  • Secretum: Avvolto nel mistero. Le loro operazioni sono al di là della classificazione. Probabilmente eliminano minacce interne ai ranghi più alti, o coloro che sanno troppo. La loro esistenza stessa è oggetto di speculazione.

Ogni tempio dell’Officio Assassinorum riflette una necessità strategica, un’esigenza dell’Imperium in uno specifico scenario. Ciascun assassino non è un semplice esecutore, ma una risposta calibrata a una minaccia precisa, scelto non per caso, ma come l’unica soluzione accettabile in un universo dove non ci sono seconde possibilità.

Che sia l’ira dell’Eversor, il vuoto del Culexus, la maschera del Callidus o l’occhio del Vindicare, l’Imperium colpisce non solo con la forza, ma con intelligenza brutale. L’Officio non è solo l’arte di uccidere, è l’arte di scegliere come uccidere… affinché il nemico non possa mai rialzarsi.


Perché Conquest non è il leader dell’Impero Viltrumite, nonostante la sua età superiore a Thragg?


La risposta sta nel fatto che nell’universo di Invincible, la forza fisica dei Viltrumiti non è determinata esclusivamente dall’età, ma da un insieme complesso di fattori: genetica, addestramento, condizioni ambientali e, non da ultimo, lo stato fisico attuale del soggetto.

Conquest, sebbene sia uno dei Viltrumiti più anziani — con un’età stimata tra i 2.500 e i 10.000 anni — non è nella sua forma migliore al momento degli eventi principali della serie. Come rivelato nella lore del fumetto, il Viltrumite fu colpito dal Flagello, il virus che quasi sterminò la sua razza, e che lasciò i superstiti notevolmente indeboliti. Conquest sopravvisse, ma con danni permanenti: perse un occhio, un braccio, e fu assegnato a incarichi secondari come la sorveglianza del pianeta Rognarr. In breve, non era più il guerriero letale di un tempo.

Dall’altro lato, Thragg rappresenta una generazione diversa, plasmata per un compito superiore. Non solo è il frutto di una selezione genetica voluta dall’élite Viltrumite, ma è stato allevato sin da bambino come il perfetto combattente, futuro reggente dell’Impero. Il suo addestramento è stato continuo, brutale, scientificamente calibrato per produrre l’essere Viltrumite più forte e strategicamente competente mai esistito. La sua forza non dipende semplicemente dall’età, ma da un insieme di condizioni ottimali e da una costante spinta al superamento dei limiti.

Infatti, nel mondo Viltrumite l’età può rappresentare esperienza, ma non garantisce superiorità assoluta. L’esempio più chiaro è la lotta tra Conquest e Mark Grayson (Invincible). Nonostante la sua giovane età, Mark riesce a sconfiggere Conquest in due occasioni. Come? Allenamento costante, capacità rigenerativa, determinazione, rabbia, e un fattore spesso sottovalutato: la volontà di cambiare e crescere. Mark, diversamente dai Viltrumiti più anziani, non è bloccato da dogmi culturali o da un passato imperiale. Si adatta, evolve, e assorbe ogni sconfitta come carburante.

Conquest, per quanto pericoloso, rappresenta un’epoca ormai superata, un soldato d’élite ma danneggiato, in una civiltà che punta ora sulla perfezione selettiva e sulla forza strategica. Non poteva essere il leader di un Impero che guarda alla supremazia evolutiva e all’efficienza genetica.

In conclusione, la forza tra i Viltrumiti è una questione di qualità, non solo di quantità (di anni vissuti). Thragg è stato progettato, allenato e temprato per il comando. Conquest, pur avendo vissuto migliaia di anni e combattuto in innumerevoli battaglie, era un guerriero logorato, segnato nel corpo e forse anche nella mente. In un Impero che non tollera la debolezza, Thragg non è solo il più forte: è il simbolo vivente dell’ideologia Viltrumite.