venerdì 16 maggio 2025

UNA MASCHERA PRIMA DEL MITO: LE OSCURE ORIGINI DEL COSTUME DI SPIDER-MAN

Nel fitto intreccio della cultura pop americana, poche immagini sono iconiche quanto il costume rosso e blu dell’Uomo-Ragno. Creato nel 1962 da Stan Lee e Steve Ditko per la Marvel Comics, Spider-Man è oggi una leggenda intergenerazionale. Eppure, scavando sotto la superficie lucida del mito, emerge una storia sorprendente che mette in discussione l'originalità di quel celebre design: e se la prima maschera del Ragno fosse nata... otto anni prima?

Nel 1954, la Ben Cooper Inc. – storica azienda newyorkese specializzata in costumi di Halloween – metteva in commercio un travestimento chiamato semplicemente "Spider Man", senza trattino, composto da una tuta giallo-arancione e da una maschera coperta di ragnatele. A oggi, si ritiene che questo sia uno dei primi indizi che possano collegare l’estetica di Spider-Man a fonti precedenti alla sua nascita editoriale ufficiale, avvenuta nell’Amazing Fantasy n.15 del 1962.

La notizia è riemersa nel 2012 grazie al lavoro di John Cimino, appassionato di fumetti della Silver Age, che sul suo blog Hero Envy raccontò la scoperta di questi vecchi costumi Ben Cooper. Cimino era riuscito a reperire modelli originali dei travestimenti anni ’50, notando le sorprendenti somiglianze con il personaggio poi reso immortale da Ditko. La maschera in particolare – caratterizzata da grandi occhi bianchi e da fitte ragnatele disegnate – sembrava anticipare l’aspetto del futuro eroe Marvel con inquietante precisione.

Nel 1963, appena un anno dopo l'esordio di Spider-Man, la stessa Ben Cooper ottenne una licenza ufficiale per produrre costumi del personaggio. Il passaggio avvenne in modo fluido, senza alcun contenzioso noto tra Marvel e l’azienda. Una coincidenza curiosa, che ha alimentato domande: era davvero una licenza su un design originale, o piuttosto un ritorno alle origini di qualcosa che già la Ben Cooper aveva immaginato?

Steve Ditko, artista geniale e solitario, si spense nel 2018 senza mai confermare un collegamento diretto. Nel 2014, interpellato dallo stesso Cimino, rispose in modo sibillino: “L’onere della prova spetta a chi fa un’affermazione”. Una frase in perfetto stile Ditko, maestro del rifiuto delle spiegazioni semplici. Tuttavia, l’ipotesi non è priva di fondamento.

Per comprendere appieno il contesto, bisogna risalire al 1954. Secondo alcune testimonianze, Jack Kirby – co-creatore con Joe Simon di Capitan America – avrebbe offerto alla Ben Cooper una serie di design per costumi di Halloween. Kirby, nel medesimo periodo, stava collaborando con Simon a un personaggio chiamato Silver Spider, poi evoluto in The Fly per la Archie Comics. Un ragazzo con poteri da insetto, agilità sovrumana, e una doppia identità. L’idea, come tante altre in quegli anni, circolava tra studi editoriali e aziende di merchandise.

The Fly, a sua volta, avrebbe contribuito a ispirare Spider-Man. Il coinvolgimento iniziale dello stesso Kirby nello sviluppo grafico dell’Uomo-Ragno fu però breve: Stan Lee, insoddisfatto del primo design – “troppo eroico”, troppo simile a Capitan America – passò il testimone a Ditko, che creò la figura nervosa, mascherata e visivamente inquieta che tutti conosciamo.

Ma c’è un altro spettro che aleggia su questa storia: The Spider. Eroe pulp degli anni ’30 e ’40, il personaggio compariva in riviste a larga diffusione ed era noto per il suo abbigliamento tenebroso – mantello, cappello, maschera. Niente di troppo simile allo Spider-Man moderno, se non fosse per la sua incarnazione cinematografica nei serial The Spider’s Web (1938) e The Spider Returns (1941), dove il personaggio indossava un costume completamente coperto da motivi a ragnatela. È noto che Stan Lee fosse un grande fan delle riviste pulp: nelle sue memorie ha più volte citato The Spider come una delle fonti di ispirazione per il nome e il concetto del supereroe Marvel.

Ecco che il quadro si complica. Una maschera gialla della Ben Cooper nel 1954. Un design a ragnatela già presente al cinema nel 1941. Un personaggio chiamato Silver Spider, antenato di The Fly, che anticipa alcuni elementi del Ragno. E infine un giovane Steve Ditko, cresciuto proprio a New York City, dove ogni Halloween centinaia di bambini giravano per le strade con quelle maschere in vendita da anni.

Coincidenze, suggestioni, o ispirazione inconscia?

In mancanza di documenti definitivi, il dibattito resta aperto. Ma ciò che emerge con forza è che la creazione di Spider-Man, come molte pietre miliari della cultura popolare, non fu un fulmine isolato. Fu il prodotto di una rete di influenze, sperimentazioni e intuizioni – alcune svanite, altre sopravvissute – in un ecosistema creativo dove idee simili si rincorrevano e si trasformavano continuamente.

E allora, nel giorno dopo il suo sessantesimo compleanno, Peter Parker può permettersi di sorridere sotto la maschera. Perché, anche se il suo costume fosse stato ispirato da un vecchio travestimento di Halloween, ciò che conta davvero è ciò che quel costume è diventato: simbolo di responsabilità, resilienza, e di un’umanità imperfetta che – per una volta – è anche straordinaria.

Buon compleanno, vecchia lenza. Anche le leggende hanno un’origine... e qualche segreto cucito tra le cuciture.

giovedì 15 maggio 2025

L’origine segreta dei Fantastici Quattro? Jack Kirby l’aveva già scritta — per la DC Comics

Prima che il mondo conoscesse i Fantastici Quattro, prima che il Marvel Universe esplodesse in tutta la sua gloria pop e narrativa, Jack Kirby aveva già fatto tutto. Aveva già scritto le origini, delineato i poteri, immaginato lo spirito avventuroso di un quartetto di eroi che avrebbe rivoluzionato il fumetto americano. E lo aveva fatto — incredibilmente — per la concorrenza. Con Challengers of the Unknown, pubblicato dalla DC Comics nella seconda metà degli anni Cinquanta, Kirby anticipò, con inquietante precisione, l’anatomia narrativa e tematica dei suoi futuri Fantastici Quattro.

Non è un’iperbole da appassionati né una speculazione in stile What If...?. È una realtà documentabile, eppure spesso ignorata, che chiama in causa non solo la paternità creativa delle icone Marvel, ma anche il ruolo di Jack Kirby nella loro genesi. Non più semplice disegnatore al servizio delle intuizioni di Stan Lee, ma co-autore a tutti gli effetti. Anzi: per alcuni, l'autore vero e proprio.

Quando Fantastic Four #1 vide la luce, nel 1961, la stampa e i lettori acclamarono la nascita di un nuovo tipo di supereroe. Gli eroi con super-problemi, come amava definirli Stan Lee. Ma chi aveva veramente tracciato la rotta che portò Reed Richards, Ben Grimm, Sue e Johnny Storm a diventare il primo gruppo di supereroi della Marvel moderna?

La risposta risiede, almeno in parte, in una serie DC oggi semidimenticata: Challengers of the Unknown, apparsa per la prima volta su Showcase #6 nel febbraio 1957. I protagonisti erano quattro uomini — Rocky Davis, Red Ryan, Ace Morgan e il Professor Haley — accomunati da una passione per l’ignoto e sopravvissuti a un incidente aereo. Da quel momento, decidono di affrontare insieme ogni genere di pericolo, da minacce aliene a fenomeni paranormali. Il tono? Esplorativo, fantascientifico, intriso di quella “meraviglia pulp” che Kirby conosceva così bene.

Il parallelo con i Fantastici Quattro non è solo concettuale. Prendiamo ad esempio Challengers of the Unknown #3, pubblicato nel settembre 1958. In questa storia, uno dei membri — Rocky, il cui nome già evoca trasformazioni “rocciose” — parte per una missione spaziale durante la quale viene esposto a misteriosi componenti chimici. Al ritorno sulla Terra, non solo ha perso la memoria, ma scopre di possedere nuovi poteri: lanciare fiamme, generare lampi o neve dalle mani, diventare gigante e addirittura invisibile. Quasi un compendio ante litteram di ciò che saranno La Cosa, la Torcia Umana, Mr. Fantastic e la Donna Invisibile.

E poi c'è June Robbins, la scienziata bionda che affianca regolarmente i Challengers. Brillante e determinata, è la figura che sembra anticipare Susan Storm, introducendo un elemento femminile nel gruppo e contribuendo attivamente alle avventure. Kirby aveva già scritto tutto, a modo suo. Lo aveva solo fatto per la casa editrice sbagliata.

Il confronto tra le due serie svela quanto le idee di Kirby siano state rifinite, più che reinventate, nel passaggio alla Marvel. Con Challengers of the Unknown, Kirby era autore completo: soggetto, sceneggiatura e disegni. Quando nel 1961 crea Fantastic Four insieme a Stan Lee, l’equilibrio cambia. Il famoso “Metodo Marvel” prevedeva infatti che Lee fornisse solo un breve soggetto, spesso a voce. Il disegnatore — nel caso specifico Kirby — sviluppava l’intero intreccio visivo, lasciando poi a Lee il compito di scrivere dialoghi e didascalie a disegni completati. Un processo che rende difficile, se non impossibile, attribuire in maniera netta la paternità delle storie.

Nel corso degli anni, il dibattito si è intensificato. Se un tempo Stan Lee veniva celebrato come il principale artefice della rinascita Marvel, oggi il pendolo si è spostato, e sono in molti a chiedersi quanta “farina del suo sacco” vi fosse realmente nella creazione di Spider-Man, Iron Man, Hulk, Thor e, naturalmente, i Fantastici Quattro. In particolare, la figura di Steve Ditko — co-creatore di Spider-Man — e quella di Kirby sono state rivalutate profondamente, alla luce della loro indipendenza creativa.

Non si tratta di revisionismo romantico. È un tentativo di ricollocare le fonti del mito moderno dei supereroi americani. Un mito che, se da un lato deve moltissimo alla capacità di Stan Lee di umanizzare i protagonisti, dall’altro affonda le sue radici nella potenza visiva e nella visione narrativa di Jack Kirby. La differenza tra Challengers e Fantastic Four sta nella densità dei personaggi, nel tratteggio psicologico e nei drammi interiori — elementi che Lee seppe inserire con straordinaria efficacia. Ma l’impalcatura, l’idea del team, la spinta all’esplorazione cosmica e la stessa natura dei poteri... tutto questo era già stato scritto.

E lo aveva fatto Jack Kirby. Senza colori sgargianti, senza costumi coordinati, ma con quella stessa furia creativa che lo avrebbe portato a cambiare per sempre il volto del fumetto mondiale.

La prossima volta che aprirete un albo dei Fantastici Quattro, chiedetevi: e se fosse cominciato tutto nel 1957?



Anime e Crocifissione: un’Iconografia Sacrilega tra Sacrificio, Pop Culture e Trauma Storico

È un’immagine che affiora ciclicamente nelle serie animate giapponesi, con una forza iconica pari a un mantra visivo: un personaggio, spesso l’eroe, legato o inchiodato a una croce, solo, inerme, in attesa del martirio o della redenzione. Accade in Devilman, Mazinga Z, Fullmetal Alchemist, Sailor Moon, persino nei più recenti Digimon e naturalmente in Neon Genesis Evangelion, forse la summa visiva di questo immaginario. Eppure, nonostante l’evidente eco cristiana, quelle croci — di metallo, legno o energia — non sono sempre, o solo, una citazione religiosa. Sono molto di più: un crocevia di influenze estetiche, spirituali e pop.

Per comprendere l’ossessione dell’animazione giapponese per il simbolismo della croce, bisogna fare un salto indietro di oltre cinquant’anni. Era il 1972 e sulle televisioni giapponesi andava in onda Ultraman Ace, quinta incarnazione dell’eroe galattico creato dalla Tsuburaya Productions. Nell’episodio 14, intitolato Cinque stelle sparse nella galassia, quattro Ultraman — fratelli cosmici dell’eroe protagonista — vengono crocifissi dagli Yapool, entità interdimensionali malvagie. Le croci recano i loro nomi; il mostro antagonista si chiama, senza possibilità di equivoco, Baraba, translitterazione giapponese di Barabba. L’episodio si imprime nella memoria collettiva, fondando — forse inconsapevolmente — un nuovo paradigma visivo.

Non fu un caso isolato. Nell’arco di pochi mesi, la scena viene omaggiata in Mazinga Z, serie simbolo del prolifico Go Nagai, in cui quattro comprimari vengono crocifissi nell’episodio 5. La croce non è solo strumento di tortura, ma teatro del sacrificio: una scenografia che amplifica la disperazione e annuncia la redenzione. Così nasce un linguaggio visivo che, da lì in avanti, sarebbe diventato codice narrativo condiviso.

Ma perché proprio la croce? La risposta si annida in una combinazione unica di elementi culturali. Da un lato, il Giappone del dopoguerra aveva sviluppato una profonda fascinazione per l’iconografia occidentale, inclusa quella cristiana, a lungo proibita e perseguitata in epoca Edo. Dall’altro, la figura stessa del salvatore, sofferente ma redento, trovava un’eco nella cultura buddista e shintoista, che già contemplano il concetto di purificazione attraverso la sofferenza. Il Cristo sulla croce, nella sua umanità e nel suo martirio, diventa una figura archetipica universale.

A rafforzare questa lettura interviene la biografia stessa di Eiji Tsuburaya, il “padre” di Ultraman. Convertitosi al cattolicesimo grazie alla moglie, infuse nel suo eroe cosmico una visione cristologica: un essere superiore che scende sulla Terra per proteggerla, pronto a sacrificarsi per l’umanità. Persino il gesto con cui Ultraman sferra il suo colpo finale — le braccia incrociate a formare una croce — può essere letto in questa chiave. È una postura liturgica, un segnale che attinge al sacro più che al marziale.

Questa matrice spirituale non si arresta con la morte di Tsuburaya nel 1970. Uno dei suoi più stretti collaboratori, Shinichi Ichikawa, nato a Nagasaki nei primi anni ’40 — poco prima della devastazione nucleare — prosegue il discorso cristologico nella saga. Anch’egli convertito, fa ricorso sistematico a nomi e simboli tratti dal Vangelo nei suoi script: apostoli diventano alieni, Golgota un pianeta remoto. Il trauma atomico, unito alla perdita della madre in giovane età, si intreccia al bisogno di significato e trascendenza. La croce, in questo contesto, smette di essere solo simbolo cristiano: diventa ferita storica, stigma universale, teatro del dolore collettivo.

Negli anni successivi, quella stessa croce verrà decontestualizzata, parodiata, fusa con altri immaginari. Nell’episodio 181 di Lamù, la figura dell’eroe crocifisso è ormai assimilata a tal punto da essere giocata sul piano comico: non c’è bisogno di spiegazioni, il pubblico riconosce il tropo. È diventato un’icona. Anche Evangelion, con le sue croci energetiche e i suoi riferimenti espliciti alla Bibbia, gioca con questo codice, portandolo all’estremo della significazione, fino a farne allegoria psicologica e teologica insieme.

Non siamo di fronte a una semplice estetica del martirio. È una drammaturgia della sofferenza, un modo per rendere visibile la crisi dell’eroe, la sua impotenza davanti a forze superiori. E, come accade nella migliore tradizione narrativa, a quella sofferenza segue spesso la resurrezione simbolica, il contrattacco, la salvezza. Il crocifisso dell’animazione giapponese è un Cristo senza dogma, un simbolo fluido che si piega alla storia che lo incarna.

Così, da Ultraman ai robot di Go Nagai, fino ai traumi esistenziali di Shinji Ikari, l’immagine della croce si è sedimentata nel DNA visivo dell’anime, superando i confini della religione per entrare in quelli del mito moderno. È un lascito culturale, ma anche una metafora universale: della vulnerabilità, del sacrificio, della speranza.

E forse, proprio in questo Giappone sempre più secolarizzato, quell’antica croce continua a parlare, silenziosa e potente, come un relitto archetipico della nostra capacità di soffrire — e di resistere.



mercoledì 14 maggio 2025

Tokyo, ponte delle lacrime: dove finisce il sogno di Joe Yabuki e inizia la realtà dimenticata del Giappone

 

Appena il sole comincia a filtrare tra le geometrie d'acciaio e cemento della capitale giapponese, una figura solitaria si fa strada nel quartiere un tempo noto come San’ya. Il nome è scomparso dalle mappe ufficiali negli anni ’60, ma resiste nell'immaginario collettivo grazie a Ashita no Joe, capolavoro dello spokon manga, opera firmata da Asao Takamori (pseudonimo di Ikki Kajiwara) e illustrata da Tetsuya Chiba. E in questo frammento dimenticato di Tokyo, sotto un cielo velato e tra le ombre del passato, si trova il cuore simbolico di quella storia: Namidabashi, il Ponte delle Lacrime.

Oggi non esiste più alcun ponte. Il canale su cui sorgeva è stato interrato, e al suo posto si allarga un incrocio anonimo, frequentato da pochi passanti e sorvegliato da un vecchio cartello che racconta, con discrezione, la triste origine del nome. Qui venivano condotti i condannati a morte, verso l’ultima stazione della loro esistenza. Le lacrime, dunque, non erano quelle della povertà, ma della fine.

Ma a differenza dei condannati di ieri, i dimenticati di oggi — senzatetto, jōhatsu, anziani invisibili — sono ancora in cammino, bloccati in una sospensione esistenziale. Nel quartiere che una volta fu casa del Tange Boxing Club di Danpei Tange e rifugio dell’irriducibile Joe Yabuki, nulla sembra davvero cambiato. Eppure, tutto è cambiato.

Il paesaggio urbano è una sequenza ossessiva di baracche improvvisate, palazzi scalcinati dell’epoca Shōwa e ruggine che divora i pannelli di lamiera. Non c’è traccia di bellezza. Le insegne sono scrostate, i teloni sbrindellati, l’asfalto macchiato di nero. Ma davanti ad alcune porte, si notano fiori freschi: segni di vita, o forse di resistenza.

Il Tamahime Park, dove Joe si rifugiava nei primi capitoli del manga e dove parlava con Noriko in un raro momento di dolcezza, oggi è sbarrato. Le catene chiudono l’ingresso, e dietro si intravedono solo un vecchio orologio e un rettangolo verde desolato. Sul lato opposto, tra un’altalena e uno scivolo, i teli blu usati per l’hanami sono diventati tetto e pareti di una baraccopoli silenziosa.

I senzatetto — molti dei quali in età avanzata — si aggirano o restano immobili, come anime in cerca di un luogo che non li rifiuti. Hanno gli anni di Joe, o forse di Danpei. Da giovani leggevano le sue imprese, le sue battaglie contro il destino, le sue sconfitte brucianti e le sue vittorie strappate alla strada. Joe era uno di loro, un eroe nato dal nulla, cresciuto tra baracche, carcere e pugni. E per questo, anche a distanza di sessant’anni, ancora li rappresenta.

Più avanti, verso il fiume Sumida, compaiono i primi segni di un’altra Tokyo. Un negozio di biciclette, un conbini, le cisterne di gas che ancora presidiano l’orizzonte, come nel manga. Ma quella che un tempo era una zona marginale, lontana dalla narrazione turistica della metropoli, resta un’area dormitorio. Qui vivono coloro che non hanno scelto Tokyo, ma l’hanno subita. Gente in fuga da debiti, famiglie spezzate, lavori perduti. Gente che non ha più un nome.

Joe Yabuki, in fondo, fu sempre questo: un ragazzo senza origine, senza futuro, eppure colmo di vita. Un eroe romantico e autodistruttivo, che si spegne in silenzio su uno sgabello, dopo aver acceso le anime di un’intera generazione. La sua immagine sopravvive negli angoli dimenticati della città, ma anche nel cuore di chi, oggi, combatte una battaglia diversa: non contro avversari sul ring, ma contro il tempo, la povertà e l’indifferenza.

Quando si torna ad Asakusa, e la città ricomincia a pulsare con il suo ritmo ordinato di salaryman, turisti americani, vecchi in bicicletta e distributori automatici, la ferita aperta di Namidabashi resta lì, sotto pelle. Un dolore muto, come quello che solo i grandi personaggi sanno lasciare: quelli che non vincono davvero mai, ma che non si arrendono mai del tutto.

Joe non ha mai chiesto la nostra pietà. Solo la nostra memoria.

E oggi, in quel luogo senza più un ponte, continuano a scorrere le sue lacrime.



lunedì 12 maggio 2025

“I Cinque Volti dell’Odio: I Nemici Più Pericolosi di Spider-Man, Dentro e Fuori la Maschera”

Per decenni, Spider-Man ha affrontato una galleria di nemici che pochi altri supereroi possono eguagliare in varietà, potenza e complessità psicologica. Ma se scaviamo tra le pieghe della narrativa Marvel, tra le battaglie spettacolari e i drammi personali che hanno tormentato Peter Parker, emergono cinque figure che incarnano non solo l’antagonismo fisico ma anche la devastazione emotiva, esistenziale e morale. Questi non sono semplici villain: sono simboli viventi dei conflitti più profondi di un eroe che, più di ogni altro, ha pagato il prezzo del potere.

1. Norman Osborn – Il Goblin Verde: il dolore fatto persona
Il volto più oscuro della follia criminale nel mondo di Spider-Man ha un nome e un volto: Norman Osborn. Genio industriale e megalomane psicopatico, il Goblin Verde ha marchiato a fuoco la vita di Peter Parker in modi che nessun altro è riuscito nemmeno a sfiorare. Dall’omicidio della sua amata Gwen Stacy alla tortura psicologica, passando per l’omicidio del fratello clone Ben Reilly, il sequestro della figlia appena nata e persino la macabra sepoltura prematura di zia May, Osborn ha fatto di Peter il bersaglio di un’ossessione delirante. A differenza di altri villain, non si è mai limitato a voler uccidere Spider-Man: ha voluto distruggere tutto ciò che lo rende umano.

2. Otto Octavius – Il Dottor Octopus: la mente che rubò una vita
Se Osborn ha distrutto l’anima di Peter, Otto Octavius è riuscito a rubargli letteralmente la vita. Nella celebre saga Superior Spider-Man, il Dottor Octopus ha scambiato il proprio corpo morente con quello di Parker, assumendone l’identità, la reputazione e persino i legami affettivi. Per oltre un anno, Octavius ha vissuto come Spider-Man, cercando di essere un "eroe migliore" con metodi radicali e moralmente discutibili. Ma ha anche costruito un impero scientifico, completato il dottorato che Peter aveva abbandonato e gestito i suoi poteri con fredda efficienza. Una provocazione beffarda: forse, per un breve momento, l’uomo che aveva sempre combattuto Spider-Man è stato migliore di lui.

3. Cletus Kasady – Carnage: il caos puro e irriducibile
Carnage non è solo un nemico potente, è una minaccia ontologica. La fusione tra il serial killer Cletus Kasady e un simbionte alieno ha dato vita a una creatura priva di raziocinio, motivazione o possibilità di redenzione. Dove Venom si è rivelato, a tratti, un alleato riluttante, Carnage rappresenta il caos puro. È l’antitesi dell’ordine morale che Peter Parker cerca disperatamente di mantenere. Nessuna tregua, nessun compromesso: Carnage uccide per il piacere di farlo, e ha messo Spider-Man di fronte alla brutalità del male nella sua forma più incontrollabile e sanguinaria. In numerose occasioni, persino l’alleanza tra Spidey e Venom non è bastata a contenerlo.

4. Morlun – Il predatore interdimensionale
Più che un nemico, Morlun è una forza primordiale. Un divoratore di totem, entità mistiche legate a esseri come Spider-Man, Morlun ha perseguitato Peter Parker con una ferocia inarrestabile, infliggendogli il colpo fisico più devastante che abbia mai ricevuto. È un predatore implacabile, capace di rintracciarlo ovunque nell’universo, e ha dimostrato più volte di essere quasi immortale. Anche dopo essere stato ucciso, è tornato – e ogni volta più determinato. In Spider-Verse, la minaccia si è moltiplicata: Morlun e la sua stirpe hanno seminato terrore tra le versioni alternative dell’Uomo Ragno, costringendo i multiversi a unirsi contro di lui.

5. Peter Parker – Il nemico che non può sconfiggere
Infine, l’avversario più insidioso di Spider-Man è l’uomo sotto la maschera: Peter Parker. Nessun altro ha inflitto a Spidey un dolore così costante e sottile come se stesso. Il senso di colpa per la morte di zio Ben, la responsabilità che lo divora, le relazioni distrutte, i sogni infranti, la carriera sabotata dalla doppia vita: ogni decisione presa da Peter è segnata dalla tensione tra dovere e desiderio, tra altruismo e autodistruzione. È stato proprio lui, non un villain, a rovinare la sua carriera accademica, a far fallire la sua impresa, a perdere l’amore e la fiducia dei suoi cari. Ironia della sorte, quando Octavius ha assunto la sua identità, ha avuto più successo. Quando Peter è tornato, ha trovato solo macerie.



Questi cinque avversari – Osborn, Octavius, Carnage, Morlun e lo stesso Peter Parker – rappresentano le diverse forme di sfida che Spider-Man deve affrontare: fisica, morale, psicologica, esistenziale. Insieme, costruiscono il ritratto di un eroe tormentato, le cui battaglie più importanti non si svolgono sopra i grattacieli di Manhattan ma nel cuore stesso dell’uomo che ha scelto, per sempre, di vivere secondo un principio semplice ma devastante: da un grande potere derivano grandi responsabilità.


domenica 11 maggio 2025

Superman è morto per mano di Doomsday. Ma davvero c'è qualcosa di deludente in tutto questo?

Quando nel novembre del 1992 la DC Comics pubblicò Superman #75, le edicole americane furono invase da lettori in lacrime, fan increduli, collezionisti in frenesia. The Death of Superman, una saga epocale, culminava con un'immagine rimasta impressa nella storia del fumetto: il mantello dell'Uomo d’Acciaio sventolante su un palo contorto, tra le macerie della battaglia. Superman era morto. E il suo assassino era un personaggio appena comparso sulla scena: Doomsday.

Per alcuni lettori, il colpo fu troppo duro da digerire. "Davvero l’uomo più potente del mondo cade contro un bruto senza volto, privo di motivazioni, senza passato, appena introdotto?" si chiesero in molti. Ma era davvero così ingiustificata la fine di Superman per mano di Doomsday? O piuttosto ci troviamo di fronte a un evento coerente, drammaticamente costruito, perfino necessario?

Per comprendere il significato della morte di Superman, occorre guardare a Doomsday non come a un semplice villain, ma come a un concetto: quello della morte ineluttabile. Creato come un’arma vivente, Doomsday non è spinto da ideologie, né da sete di potere, né da vendetta. È pura distruzione, un essere concepito per evolversi attraverso il conflitto, per adattarsi a ogni minaccia e superarla. Prima di affrontare Superman, Doomsday aveva già sconfitto intere legioni di Lanterne Verdi, uccidendo con facilità centinaia di membri del Corpo. Aveva persino costretto i Guardiani dell’Universo a intervenire direttamente, un evento estremamente raro nell’universo DC. Uno dei Guardiani — entità cosmiche comparabili a Odino per potere — fu costretto a sacrificarsi per fermarlo, e nemmeno in modo definitivo.

Quando Doomsday raggiunge la Terra, porta con sé un’eredità di distruzione che pochi avversari nella storia del fumetto possono vantare. Non si limita a combattere Superman: si adatta al suo potere, lo studia, lo replica. È il nemico perfetto per un eroe che fino ad allora sembrava invincibile.

Nel loro scontro finale, Superman non si abbandona alla violenza. Cerca di contenere i danni, di proteggere la città, i civili, i suoi stessi principi. E solo quando si rende conto che non ci sono alternative, che Doomsday non può essere fermato, che la vita su scala planetaria è a rischio, decide di combattere alla pari. "Devo essere feroce quanto lui", afferma. Non è una scelta leggera: è un atto di disperazione, ma anche di responsabilità.

La decisione di Superman di sacrificarsi non nasce da debolezza, ma da forza morale. Anche indebolito, con le energie al limite, riesce a sferrare un colpo mortale. La sua vittoria è totale — ma lo è anche la perdita.

La morte di Superman non è solo il punto culminante di una saga ben scritta, ma una riflessione sul ruolo dell’eroe nella società. Superman è l’icona, l’ideale, la figura paterna e protettiva. Il suo cadere dimostra che nessuno, nemmeno il più forte, è invulnerabile. E che il vero eroismo non sta nell’essere imbattibili, ma nel combattere fino in fondo, anche a costo della vita.

La delusione, se mai c’è stata, nasce dalla percezione errata che un personaggio come Superman debba sempre vincere senza conseguenze. Ma è proprio il fatto che abbia scelto di sacrificarsi, pur avendo ancora la forza per abbattere il suo nemico, a rendere la sua morte così potente.

The Death of Superman è stato più di un momento shock: è stato un evento culturale. Ha ridefinito il modo in cui i supereroi possono essere narrati. Ha mostrato che perfino il simbolo più duraturo del bene può morire — e che la morte può essere significativa. Il lutto che segue, narrato nelle storie successive (Funeral for a Friend, Reign of the Supermen), esplora il vuoto lasciato dalla sua assenza e il modo in cui il mondo cerca di andare avanti.

La saga ha ispirato trasposizioni cinematografiche, serie animate, discussioni accese tra lettori e critici. Ma, soprattutto, ha costretto l’industria del fumetto a confrontarsi con la mortalità dei propri miti.

No, non è deludente che Superman sia morto per mano di Doomsday. Al contrario, è narrativamente coerente, simbolicamente forte, emotivamente devastante. La sua morte non è una caduta banale, ma un atto supremo di eroismo. Non viene ucciso da Doomsday, ma insieme a lui: un sacrificio reciproco, uno scambio di colpi finali, un epilogo che richiama l’eroismo tragico delle epopee antiche.

Superman è morto in piedi, colpendo per proteggere. E questo, forse, è il modo più grande con cui poteva andarsene.


sabato 10 maggio 2025

Quando l’Impero dell’Ordine incontra la Ferocia Primordiale: Borg vs Xenomorfi, un Primo Contatto Letale

Se mai vi fosse stato un incontro che incarnasse la dicotomia perfetta tra ordine e caos, intelligenza sistemica e istinto brutale, questo si verificherebbe nel gelo silenzioso dello spazio, nel momento in cui il Collettivo Borg incrociasse la razza Xenomorfa. Da un lato, un’utopia meccanizzata che assimila ogni civiltà avanzata per accrescere il proprio potere; dall’altro, una forza bio-organica votata alla sopravvivenza cieca e distruttiva, esente da razionalità, pietà o diplomazia. Entrambe le entità sono incubi cosmici, ma in modi diametralmente opposti.

L’incontro, ipotetico quanto inevitabile in un universo vasto e predatorio, si configurerebbe come una collisione tra due assoluti incompatibili: la logica e l’entropia. E mentre l’opinione popolare potrebbe immaginare una rapida assimilazione, gli esperti di xenotattica e biomeccanica avvertono: non sarebbe una vittoria semplice per nessuna delle due parti.

Al primo contatto, gli Xenomorfi avrebbero il vantaggio. Le navi del Collettivo, abituate ad affrontare civiltà strutturate e tecnologicamente avanzate, non dispongono inizialmente di protocolli efficaci contro un nemico privo di infrastrutture, ma armato di un’arma chimico-biologica letale come il sangue acido. I droni Borg, se teletrasportati in un alveare silente, sarebbero prede perfette: lenti, prevedibili, scarsamente armati per il corpo a corpo. Gli Xenomorfi, nascosti nel bioma della nave conquistata, avrebbero campo libero per distruggere, fecondare, dilaniare.

Ma se i Borg sono vulnerabili alla sorpresa, sono maestri nell'adattamento. Ogni fallimento diventa informazione, ogni sconfitta un codice da ottimizzare. Una volta analizzati i dati biologici degli Xenomorfi, il Collettivo potrebbe sviluppare naniti resistenti agli agenti corrosivi, armi a raggio ottimizzate per l'energia cinetica o sistemi di contenimento fisico piuttosto che energetico. L’intelligenza distribuita dei Borg, a differenza dell’istinto dell’alveare Xenomorfo, permetterebbe una pianificazione logistica e una risposta strategica impossibile per le creature aliene.

In uno scenario successivo, sarebbe plausibile che i Borg non solo riuscissero a contenere l’infezione, ma che procedessero con una vera e propria neutralizzazione sistemica: attacchi a distanza, bombardamenti orbitari, teletrasporti selettivi per isolare regine o depurare ambienti. La superiorità tecnologica si trasformerebbe in predominio sul campo.

Tuttavia, la questione dell’assimilazione rimarrebbe spinosa. Gli Xenomorfi, pur perfetti dal punto di vista biomeccanico, non possiedono la cognizione necessaria per l’integrazione nel Collettivo. Sono predatori, non individui. Non si può ordinare a uno Xenomorfo di ottimizzare uno scudo deflettore o riprogrammare un campo warp. Anche se i Borg riuscissero a impiantare componenti cibernetici nei corpi degli Xenomorfi, questi risulterebbero entità sterili per il Collettivo: potenti, ma non cooperativi; letali, ma inutilizzabili per la funzione primaria della collettività.

Questo porterebbe a una decisione fredda ma logica: designare gli Xenomorfi come una specie non assimilabile, da osservare, contenere o, in casi estremi, eliminare. Una nave infetta verrebbe distrutta, la biosfera dell’alveare neutralizzata, e i Borg continuerebbero la loro missione tra le stelle, lasciando dietro di sé un silenzio ancora più cupo.

Tuttavia, questo scontro lascia aperte alcune domande. Cosa accadrebbe se una regina Xenomorfa venisse catturata viva? I Borg la considererebbero un’anomalia da studiare? Potrebbero tentare una sintesi genetica, integrandone tratti selezionati in nuove generazioni di droni adattivi? L’orrore biomeccanico degli Xenomorfi potrebbe diventare materia prima per un’ulteriore evoluzione cibernetica?

Se così fosse, il risultato non sarebbe l’assimilazione degli Xenomorfi… ma la loro sublimazione all'interno di una nuova forma di terrore transorganico: un Borg con denti a tenaglia e sangue acido, capace di strisciare nei condotti e pensare in rete.

In questa danza mortale tra carne e macchina, istinto e calcolo, la vittoria finale spetterebbe forse alla parte capace di imparare. E in un universo dove la sopravvivenza dipende dalla capacità di mutare, i Borg restano i più pericolosi.

Perché, come recita il loro motto: la resistenza è inutile. Ma nel caso degli Xenomorfi, potrebbe semplicemente essere… irrilevante.